La storia di Hazem Alghosain, musicista 25enne della Striscia di Gaza e dei suoi piccoli amici che cantano e fanno musica insieme anche tra le macerie e gli ordigni che li uccidono. Cantare per ricordare chi non c'è più e onorare la sua vita.
Tra tende e macerie, sotto cieli attraversati da droni e missili, una melodia può ancora nascere. Non per ignorare il dolore, ma per abbracciarlo, trasformarlo… A Gaza, la musica non è solo arte. È ciò che resta quando tutto viene tolto.
Hazem Alghosain ha 25 anni ed è originario del capoluogo della Striscia. Musicista, scrittore e operatore teatrale, è cresciuto in una terra che da decenni conosce solo occupazione, assedio e guerra. Suo padre lo ha chiamato Marcel, in omaggio a Marcel Khalife, simbolo della musica araba impegnata. Ma è con il nome datogli da sua madre, Hazem, che significa «fermo», che ha scelto di camminare nella vita.
Quanto conta una canzone
Quando quest’ultima guerra è scoppiata, nell’ottobre 2023, il suo studio di registrazione è stato distutto; Hazem ha perso molto più di un lavoro: gli manca il suo spazio artistico, il perimetro dei suoi sogni. Per mesi è rimasto in silenzio. Anche la sua voce, abituata a cantare anche nei momenti più bui, si era spenta. Dove tutto è solo sopravvivenza, cosa può contare una canzone?
Eppure, nell’abisso del dolore, la musica è tornata ad affacciarsi e a farsi sentire. In una casa-rifugio dove erano ammassati centinaia di sfollati, Hazem ha visto nello sguardo dei bambini la stessa paura che portava dentro di sé. Ha deciso allora di cantare Aatuna al-Tufulah, «Ridateci l’infanzia», un brano triste, quasi una preghiera (chi volesse farsene un’idea, può ascoltarlo in una delle numerose versioni disponibili in Internet – ndr). In quei piccoli, la melodia ha acceso una scintilla. Hanno cantato con una forza che squarciava il buio. E in quel momento in Hazem s’è fatta largo un’idea.
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Ha capito che la musica poteva ancora essere un’ancora di salvezza. Non solo per lui, ma per tanti. Ha iniziato a radunare i bambini, ad aiutarli a esprimersi attraverso il canto, la scrittura, il teatro. Nel marzo del 2024 ha allestito una «tenda della musica», uno spazio di libertà in mezzo al campo di prigionia a cielo aperto che Gaza è diventata. In poco tempo, la tenda è diventata un centro pulsante di creatività e resistenza: 200, forse 250 bambini ogni giorno. Il canto al posto delle armi.
Poi, la violenza ha colpito ancora. Un ordine di evacuazione, l’ennesimo bombardamento, e poi il ritorno: ma molti dei «piccoli artisti» di Hazem non c’erano più. Venti uccisi. Altri feriti. Il sogno era stato lacerato. Hazem ci ha pensato per un giorno, poi ha deciso. Avrebbe continuato con chi era rimasto, nel nome degli assenti. Perché la musica, per lui, è memoria. È tarab, come dicono in arabo: incanto, estasi che attraversa il dolore. Dove mancano pane e acqua, dove i rifugi diventano tombe e i cieli portano morte, la musica continua a dire: io esisto.
Se c’è vita c’è musica
Hazem, che ha perso amici, parenti, colleghi, ha raccontato la sua storia sul portale di informazione The Eletronic Intifada. La fame, l’isolamento, le bombe hanno nuovamente colpito il sogno di questo musicista, ma non lo hanno spezzato. In una Gaza che affonda nella distruzione, lui continua a cantare. Non è un eroe. Non vuole esserlo. È un ragazzo con una chitarra, un giovane uomo con dentro troppe ferite, troppi nomi da ricordare. Ma la sua storia ci costringe a chiederci: cosa resta dell’umano quando tutto viene tolto?
«La canzone che è stata cantata non può essere uccisa», dice Hazem. Finché esiste qualcuno che ricorda, che racconta, che canta, Gaza non sarà solo sinonimo di morte. Sarà anche terra di arte, di resistenza culturale, di resilienza creativa. E in quella «tenda della musica», tra le macerie, continueranno a risuonare le voci dei bambini che, anche solo per un attimo, hanno cantato contro l’orrore.


























