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In stato di guerra, Betlemme come una prigione

Cécile Lemoine
18 novembre 2023
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In stato di guerra, Betlemme come una prigione
Il check-point 300 a Betlemme è chiuso alla circolazione veicolare. Vi possono transitare solo i pedoni per entrare in città, ma non per uscirne. (foto Cécile Lemoine/TSM)

Isolata dal 7 ottobre scorso, Betlemme è piombata in una nuova crisi economica e patisce le ripetute incursioni dell'esercito israeliano che provocano morti lì come in altri centri urbani della Cisgiordania occupata.


Le lamentele dei mercanti riempiono il vuoto lasciato dall’assenza dei clienti. È sabato nella città natale di Cristo. I vicoli del suq dovrebbero brulicare di vita e di gente che viene a fare la spesa. Ma dal 7 ottobre la città è chiusa in sé stessa. «Vendo la metà della carne del solito – sospira Hamdi, 57 anni, uno dei macellai del mercato –. Da un lato perché gli abitanti di Gerusalemme e dei villaggi circostanti non vengono più, e dall’altro perché la gente ha meno soldi».

Su Betlemme è calata una sorta di coprifuoco: dall’inizio della guerra i principali ingressi alla città sono stati chiusi dall’esercito israeliano. Una misura abituale nei momenti di tensione. Stavolta però, da un mese e mezzo, è aperto alle auto un solo ingresso all’estremità sud della città, sotto lo sguardo attento dei soldati che tengono sotto tiro chi transita. Due autobus, ad orari irregolari, fanno la spola con Gerusalemme. Gli spostamenti e il trasporto di merci da una città all’altra sono un percorso a ostacoli.

Hamdi, il macellaio, attende i clienti nel mercato semideserto. (foto Cécile Lemoine/TSM)

Majdi, che gestisce un negozio di souvenir sulla strada che conduce alla basilica della Natività, ha voluto andare a far scorta di kefiah nel negozio all’ingrosso della fabbrica di Hebron, l’unica che produce ancora l’emblematica sciarpa palestinese. «Normalmente impiego 20 minuti per arrivarci – spiega il commerciante 54enne –, ma questa volta a causa delle strade bloccate e del traffico, ci ho messo più di tre ore!».

Disoccupazione e povertà

Stesso problema per frutta e verdura, coltivate nella regione di Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata. «Con l’inizio della guerra abbiamo dovuto trasportare gli ortaggi organizzando una staffetta di quattro autovetture. La verdura trasbordava in ciascuna delle principali città: Jenin, Nablus, Ramallah e poi Betlemme, perché era impossibile effettuare il viaggio di andata e ritorno da qui a là in un solo giorno», dice Jalal dietro le sue pile di cetrioli e clementine. Difficoltà che si ripercuotono sui prezzi, aumentati del 20 o 30 per cento su frutta, verdura, ma anche zucchero, riso, benzina… Alcuni prodotti israeliani, come il cioccolato o alcune marche di patatine, non si trovano più in Cisgiordania.

La desolazione del centro cittadino, senza pellegrini e con scarsi movimenti degli abitanti locali. (foto Cécile Lemoine/TSM)

Molte persone non si muovono più. Per paura dell’esercito, dei coloni, degli ingorghi. «Siamo come in una prigione», sussurra Jalal, un tassista che limita le sue corse a Betlemme e alle due comunità vicine, Beit Jala e Beit Sahour.

«Raramente la situazione è stata così difficile», denuncia Anton Salman, sindaco di Betlemme dal 2017 al 2022, che si prepara a tornare in servizio in seguito a un accordo con il suo successore Hanna Hanania. Al di là dell’aumento dei prezzi, l’economia di Betlemme si basa su tre fonti di reddito, tutte venute meno: l’interruzione dei flussi turistici ha prodotto il licenziamento del personale di alberghi e ristoranti, i permessi delle 16mila persone che lavoravano in Israele sono stati revocati e l’Autorità nazionale palestinese non ha ancora pagato gli stipendi dei suoi dipendenti».

Pacchi alimentari e sussidi

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, in Cisgiordania sono andati persi il 24 per cento dei posti di lavoro, mentre prima della guerra il tasso di disoccupazione era già al 13 per cento. «La Cisgiordania è sull’orlo della crisi economica. Siamo asfissiati», avverte Fadi Kattan, chef franco-palestinese che ha deciso di continuare a pagare gli stipendi dei sei dipendenti del nuovissimo hotel Kassa, da lui fondato insieme alla cilena Elizabeth Kassis, nella città vecchia di Betlemme. «Abbiamo una responsabilità», insiste l’imprenditore. Secondo lo stesso rapporto delle Nazioni Unite, 16 anni di sviluppo potrebbero essere cancellati se la guerra continuasse per un altro mese.

I primi a essere colpiti sono i ceti medi. I piccoli risparmi accantonati dopo il Covid, in previsione delle tensioni, stanno finendo: «Una decina di famiglie ci chiedono aiuto ogni settimana, contro le due che ci contattavano prima della guerra – racconta una suora –. Paghiamo le bollette dell’elettricità, diamo sacchi di cibo… Facciamo quello che possiamo, perché per il momento i trasferimenti e le donazioni non arrivano sul nostro conto palestinese».

Il lutto di Aida

Tra i beneficiari, anche alcuni residenti del campo di Aida. Popolato da profughi del 1948 e sotto la responsabilità dell’agenzia Onu per l’assistenza ai profughi palestinesi (Unrwa), la resistenza armata vi è stata repressa nel 2002, a differenza che nei campi di Jenin, Tulkarem o Nablus. Lì l’esercito israeliano effettua operazioni e arresti quotidiani. Dal 7 ottobre, 2.540 persone sono state arrestate in Cisgiordania e 195 palestinesi sono stati uccisi, di cui 7 a Betlemme.

Nel clima di guerra si moltiplicano gli abusi anche in Cisgiordania. (foto Cécile Lemoine/TSM)

Questo sabato, 11 novembre, il campo dell’Aida è in lutto. Il giorno prima, intorno alle 5 del mattino, è morto un ragazzo di 17 anni, Mohammad Ali. «Un cecchino, piazzato nella torre di osservazione, gli ha sparato al petto. Era sul tetto, non faceva nulla, stava per prendere la maturità», geme Hayat, sua madre, con il viso inondato di lacrime mentre allatta l’ultimo dei suoi cinque figli. Il volto di Mohammad ora è dipinto su uno degli angoli della sua casa, come è consuetudine per i residenti del campo uccisi dall’esercito.

«La settimana precedente, un ragazzo di 12 anni era stato colpito ai genitali mentre tornava da scuola. La violenza non è mai stata così gratuita», si infuria Abdelfattah Abusrour, direttore di una delle istituzioni del campo, il centro culturale Al-Rowwad. «Gli israeliani vogliono tenerci sempre sotto pressione. Sparano per uccidere. Cose che non fecero nel 1948, le stanno facendo adesso».

Chiese affollate

Domenica. Betlemme risuona di canti e preghiere in arabo. Le chiese non sono mai state così piene, notano i parroci. «C’è bisogno di spiritualità in questi tempi difficili e la Chiesa è anche un luogo di incontro, quando molte persone hanno perso il lavoro», sottolinea fra Sandro Tomašević, che dirige la Casa del fanciullo, dei francescani, a Betlemme e a volte celebra la messa nella chiesa di Santa Caterina in perfetto arabo.

La chiesa francescana di Santa Caterina a Betlemme affollata di fedeli per la celebrazione della messa. (foto Cécile Lemoine/TSM)

Cosa dice ai suoi fedeli? «Che i cristiani devono essere una luce, che non devono lasciarsi dominare dalle storie che si raccontano da una parte e dall’altra del muro. Che oggi più che mai i cristiani devono essere missionari e condividere il messaggio d’amore di Gesù».

Quest’anno il Natale avrà un sapore speciale. In segno di rispetto per le sofferenze generate dalla guerra, i vertici delle Chiese di Gerusalemme hanno annunciato la cancellazione di tutte le festività legate all’Avvento, per meglio focalizzare “il significato spirituale del Natale”. Si svolgeranno celebrazioni religiose, ma non si svolgeranno attività emblematiche come l’illuminazione degli alberi, i mercatini di Natale e le sfilate scout. A Betlemme il comune ha tolto le decorazioni luminose, rimaste lì dallo scorso Natale.

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