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Psicanalisi della guerra di Gaza e come uscirne, un dibattito israeliano

Manuela Borraccino
23 ottobre 2023
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Psicanalisi della guerra di Gaza e come uscirne, un dibattito israeliano
Le foto di oltre mille persone rapite, uccise o disperse nell'attacco terrorista di Hamas del 7 ottobre esposte nell'Auditorium Smolarz dell'Università di Tel Aviv. (foto Yonatan Sindel/Flash90)

Com’è possibile che uno dei Paesi più armati e tecnologicamente avanzati del mondo sia stato attaccato così brutalmente da un gruppo di terroristi? E come salvare i civili gazesi? Gli psicologi politici israeliani chiedono l’intervento dei leader mondiali: quelli israeliani e palestinesi non sono capaci di fermare questa «marcia della follia».


Non è difficile ravvisare nell’attuale guerra di Gaza le dinamiche psicotiche che muovono ai conflitti quei gruppi che non sono stati capaci di elaborare il lutto delle perdite collettive nazionali, come hanno dimostrato nel dopoguerra i classici della psicologia delle guerre firmati da Franco Fornari, Alexander e Margarete Mitscherlich e Vamık Volkan. Gli israeliani e i miliziani di Hamas sono un caso di scuola in tal senso, benché non ci sia alcuna simmetria tra questi due avversari, rimarca sul suo blog il professor Avner Falk, uno dei più noti psicologi politici israeliani, autore di vari saggi storici sul conflitto arabo-israeliano.

Nella guerra in corso, scrive Falk, si vede quanto possa diventare intrattabile un conflitto fra due grandi gruppi confinanti «quando nessuno dei due ha superato le proprie perdite storiche, quando ciascuno dei due si concepisce come superiore all’altro e ciascuno proietta inconsciamente sull’altro aspetti del sé che non accetta». Certo, non ci può essere alcuna falsa simmetria fra israeliani e Hamas: «i combattenti di Hamas hanno commesso atrocità inenarrabili che i soldati israeliani non hanno mai commesso, neppure durante le nostre guerre di sopravvivenza del 1948 e del 1973». Soprattutto perché, come è stato ricordato, la guerra dello Yom Kippur è avvenuta tra eserciti e non con attacchi indiscriminati a civili disarmati, come avvenuto in queste due settimane. «Ciononostante, anche se bisogna tener conto della cultura araba e musulmana quando cerchiamo di capire Hamas – rimarca Falk – i processi psicologici profondi che operano in entrambi i gruppi hanno molto in comune».

«Ogni gruppo umano (si tratti di un clan, di una tribù o di una nazione) – spiega – tende a vedere il proprio gruppo come superiore, eletto, il centro del mondo: tutto ciò che è esterno funziona come contenitore delle proiezioni inconsce del gruppo. Nel caso di due popoli confinanti, questo può portare alla visione del “noi” e “loro” dove il “noi” comprende tutto il bene e l’altro tutto il male: lo si è visto più volte nella storia antica, nell’era moderna e in quella contemporanea con i processi di decolonizzazione. Questo rende la guerra un mezzo accettabile, se non talvolta l’unico, per avere a che fare con l’altro gruppo».

Ma un’altra grande causa inconscia delle guerre, rimarca Falk sulla scia dei suoi maestri, «riguarda l’incapacità di elaborare il lutto, o le proprie perdite storiche, si tratti di territorio, popolazione, sconfitte in battaglia o altri traumi collettivi». «Perché mentre gli individui possono arrivare più o meno gradualmente e dolorosamente a elaborare le proprie perdite, i grandi gruppi non ci riescono. Creano invece memoriali, monumenti, Giornate del ricordo o, come vengono chiamati in Israele, progetti di esternalizzazione». Fornari ha mostrato nei suoi saggi come la guerra sia spesso la risposta psicotica all’elaborazione paranoica del lutto. «Nei suoi oltre 2.500 anni di storia e di perdite, diaspore, persecuzioni e pogrom fino alla Shoah – ricorda Falk – Israele non fa eccezione. Così come anche i palestinesi, dalla Nabka in poi, hanno le loro perdite mai completamente superate. Nessuno di noi due è stato capace di elaborare le proprie perdite nazionali. Non ci vuole molto ad aggiungere che Hamas non ha mai accettato la perdita della Palestina ed è scontato che dopo le atrocità che i loro miliziani hanno commesso Hamas sia diventato un oggetto da annientare per Israele».

All’analisi di Falk fa eco quella del collega e amico di lunga data Daniel Bar-Tal, docente emerito di Psicologia politica all’Università di Tel Aviv e autore di un saggio fresco di stampa, Sinking into the Honey Trap (Westphalia Press 2023), su come i cosiddetti conflitti intrattabili si basino su barriere psicologiche che formano, col passare del tempo, una cultura del conflitto affermata e imposta dalle leadership politiche fino a diventare una zona di comfort per le società implicate. «I criminali di Hamas – afferma Bar-Tal – devono essere processati e puniti per aver commesso atrocità ardue da immaginare per qualsiasi essere umano. Ma Hamas non include tutta la popolazione di Gaza che è punita collettivamente per vivere sotto il totalitarismo di Hamas. Gaza verrà conquistata e Hamas distrutta come la vendetta richiede. Ma cosa verrà il giorno dopo? Questa è la domanda a cui il governo di Netanyahu non può rispondere perché non è preparato a rispondere, e non ha la minima idea. I palestinesi non se ne andranno. L’occupazione diventerà più profonda, e il circolo vizioso di violenza si intensificherà. Noi civili israeliani e palestinesi abbiamo bisogno che il mondo ci dia una mano per fermare questa strage, da soli non ce la facciamo».

Un appello soprattutto al presidente statunitense Joe Biden non dissimile da quanto indica l’editoriale dell’Economist del 21 ottobre: solo gli Stati Uniti possono imporre una qualche forma di accordo. I passati negoziati di Israele con gli Stati arabi dimostrano che è possibile.

 

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