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L’ex mediatore Baskin: «Non si può parlare di due Stati e riconoscerne uno solo»

Cécile Lemoine
23 febbraio 2024
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L’ex mediatore Baskin: «Non si può parlare di due Stati e riconoscerne uno solo»
Gershon Baskin nella sua casa di Gerusalemme. (foto Cécile Lemoine)

L'israeliano Gershon Baskin nel 2011 trattò con Hamas l’accordo per la liberazione del soldato Gilad Shalit, catturato nel 2006 e trattenuto per alcuni anni nella Striscia di Gaza. Il suo punto di vista sui negoziati in corso.


Attivista israeliano impegnato per la pace, Gershon Baskin nel 2011 coordinò con Hamas l’accordo per la liberazione del soldato Gilad Shalit. Fine conoscitore del funzionamento di questi negoziati e impegnato a pensare al «giorno dopo», fa luce sulla posta in gioco, mentre le discussioni su un nuovo cessate il fuoco sono a un punto morto.

Signor Baskin, secondo lei che cosa sta bloccando le trattative sul rilascio degli ostaggi?

Per Israele c’è stato fin dall’inizio un conflitto nel conflitto: sradicare Hamas e riportare a casa gli ostaggi, cioè i due obiettivi della guerra, sono contraddittori. Per un breve periodo, l’accordo sugli ostaggi ha avuto la priorità perché era «facile» da attuare. Gli ostaggi stranieri, le donne e i bambini israeliani rappresentavano un peso logistico per Hamas, mentre le 39 donne palestinesi e i 190 adolescenti rilasciati dalle carceri israeliane non erano né responsabili dell’omicidio di israeliani né impegnati all’interno di Hamas. L’accordo avrebbe dovuto essere raggiunto due settimane prima, ma la pressione militare israeliana sulla città di Gaza lo ha ritardato.
Oggi Israele è convinto di essere vicino alla cattura dei capi di Hamas nei loro tunnel e che, una volta uccisi, la catena di comando crollerà consentendo la liberazione degli ostaggi. Con questa convinzione, gli israeliani non sono quindi interessati a un accordo. Ma questo rafforza Hamas e Israele corre un rischio molto grosso. In un certo senso, gli ostaggi vengono sacrificati, perché non è detto che non saranno giustiziati come rappresaglia per la morte dei comandanti.

Nella piazza degli ostaggi a Tel Aviv, un’installazione artistica paragona gli ostaggi alle pedine degli scacchi e lancia un appello: «Portateli a casa». (foto Cécile Lemoine)

Israele dovrebbe accettare le condizioni di Hamas: fine della guerra, ritiro militare da Gaza e rilascio di tutti i prigionieri?

No, perché ciò lascerebbe Hamas al potere a Gaza, e questo è inaccettabile per Israele. Leggendo la proposta di accordo ho visto una piccolo spiraglio che avrebbe aperto la strada a una soluzione diplomatica diversa. Il piano proposto è suddiviso in tre parti, distribuite in un periodo di quattro mesi. Con la prima fase, le donne in ostaggio, i bambini e i malati sarebbero recuperati in cambio di una tregua di 45 giorni e della liberazione di prigionieri palestinesi. Le fasi 2 e 3 verrebbero negoziate durante la tregua per portare al rilascio del resto degli ostaggi (uomini e soldati) in cambio del ritiro militare da Gaza, del rilascio di prigionieri palestinesi e della fine della guerra.

→ Leggi anche: L’Ue chiede di ridurre le armi dispiegate contro Gaza

Ciò che ho proposto è di separare la fase 1 dalle fasi 2 e 3: accettiamo l’accordo come tale, ma utilizziamo il primo cessate il fuoco per riprendere forza e trovare una soluzione diplomatica che metta fine alla guerra, senza lasciare Hamas al potere. Se fossi un mediatore, proverei a negoziare affinché il cessate il fuoco inizi il prima possibile e copra l’intero mese di Ramadan (dal 10 marzo all’8 aprile – ndt).

Sulla base della sua esperienza, quali sono le chiavi per negoziare con Hamas?

Tutto ciò che era rilevante prima della guerra non lo è più. La situazione è completamente diversa. Negoziare per liberare un soldato è completamente diverso dal negoziare per liberare 234 persone, con la guerra in corso, il massacro di migliaia di persone. Anche la comunicazione con Gaza è molto più difficile. Al tempo di Gilad Shalit avevo canali diretti. Oggi è più complicato, anche se non credo che Yahya Sinwar, che avrà sempre l’ultima parola sulle decisioni di Hamas, sia sconnesso, come sostengono molti soldati.
Le trattative sono impossibili finché entrambe le parti non sono pronte a raggiungere un accordo. Perché l’accordo è sul tavolo. Purtroppo, Hamas ha il controllo e stabilisce le condizioni, perché è Hamas che ha gli ostaggi, lasciando a Israele la scelta di decidere se accettare o meno. Ecco perché ci sono voluti più di 5 anni per liberare Gilad Shalit.

234 sedie vuote, come il numero di persone tenute in ostaggio a Gaza all’inizio della guerra. Piazza degli ostaggi, Tel Aviv, novembre 2023. (foto Cécile Lemoine)

C’è poi un altro elemento classico delle trattative: la parte più debole vuole parlare di principi, mentre la parte più forte vuole parlare di dettagli. Il discorso è totalmente diverso. Hamas parla di principi: le categorie dei prigionieri, le condizioni di rilascio; Israele vuole un accordo dettagliato: i nomi dei prigionieri, degli ostaggi… Avviene lo stesso in tutti gli altri conflitti.

Che cosa ha imparato da Hamas durante incontri e discussioni che ebbe all’epoca?

Per loro la pace non è un concetto. Per un periodo abbiamo parlato di un cessate il fuoco a lungo termine che richiedesse anche la fine dell’assedio economico di Gaza. Ma non c’è mai stato alcun reale progresso perché Israele ha assassinato uno dei leader nel 2012. Oggi non credo che ci sia nulla da comunicare tra Israele e Hamas. Siamo in un vicolo cieco. Ciascuna parte è determinata a uccidere l’altra. Questo non è un negoziato normale.

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Oggi, ad eccezione di due contatti, nessun leader di Hamas mi risponde. Ho tagliato i ponti con Ghazi Hamad, l’attuale portavoce di Hamas a Beirut, con il quale avevamo concordato il rilascio di Gilad Shalit nel 2011, dopo che ha glorificato i massacri del 7 ottobre. Non è più la persona che conoscevo da 17 anni. Egli nega completamente qualsiasi diritto del popolo ebraico a vivere qui, anche se è stato l’unico membro di Hamas con cui ho discusso di pace.

Un’immagine del 2022 a Khan Younis, città nella Striscia di Gaza: un murale raffigura combattenti di Hamas che lanciano razzi. (foto Abed Rahim Khatib/Flash90)

La soluzione dei due Stati, che prima del 7 ottobre sembrava morta, da quel giorno non è mai stata così popolare…

Sì, è una strana vittoria per Hamas, che si è sempre opposto. Quello che ci separa dall’obiettivo sono i buoni leader, che mancano da entrambe le parti. Netanyahu è finito: l’80 per cento della popolazione vuole che se ne vada. Da parte palestinese, personalità come Nasser Al-Kidwa, nipote di Yasser Arafat e per vent’anni ambasciatore dell’Olp presso le Nazioni Unite, o Marwan Barghouti, prigioniero divenuto il simbolo della resistenza palestinese dopo la Seconda intifada, potrebbero creare unità tra le fazioni palestinesi.
Ma occorre determinazione anche su scala internazionale. Ha permesso che questo mito della «gestione dei conflitti» crescesse per troppo tempo. Oggi basta. Non possiamo parlare di una soluzione dei due Stati per 30 anni, riconoscendone solo uno. I Paesi occidentali devono assumersi le proprie responsabilità e riconoscere lo Stato di Palestina. Questo è il passo che porterà al cambiamento. Dobbiamo rendere la Palestina reale per i palestinesi, in modo che vogliano vivere per essa e non morire per essa. Così sconfiggeremo Hamas.

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