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L’Ue chiede di ridurre le armi dispiegate contro Gaza

Giuseppe Caffulli
15 febbraio 2024
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L’Ue chiede di ridurre le armi dispiegate contro Gaza
Josep Borrell Fontelles. (foto European Union, 2024)

Gli effetti dell'intervento militare israeliano nella Striscia di Gaza dopo il 7 ottobre 2023 sembrano ormai sproporzionati ai più. L’Alto rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza comune dell’Unione europea Josep Borrell chiede di trarne le conseguenze e ridurre l'afflusso di armamenti.


Quattro convinti no. L’Alto rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza comune dell’Unione europea Josep Borrell, durante la riunione informale dei ministri della Cooperazione e Sviluppo dei Ventisette svoltasi a Bruxelles il 12 febbraio, non ha usato giri di parole. Sviluppando, a suo dire, un «ragionamento logico», Borrell ha spiegato la posizione dell’Europa circa l’atteggiamento d’Israele nella guerra contro Hamas nella Striscia di Gaza e, più in generale, nei confronti di quanto sta avvenendo in Medio Oriente.

Il primo rifiuto è per la risposta sproporzionata di Israele all’attacco terroristico del 7 ottobre scorso, con le ormai 100mila persone gazesi rimaste uccise, ferite o disperse (come ha ricordato Philippe Lazzarini, il responsabile dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, Unrwa, presente alla riunione).

Il secondo no è indirizzato ai piani bellici del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che vorrebbe evacuare e attaccare la città di Rafah, ultima porzione della Striscia a ridosso con l’Egitto, dove si è ammassata gran parte della popolazione civile in fuga dal nord della Striscia.

Un altro no è legato alla condanna senza appello dell’Unrwa, sottoposta a indagini da parte dell’Onu circa le accuse a una dozzina di membri del suo personale (ritenuti fiancheggiatori o membri organici di Hamas), e allo stop annunciato da parte di alcuni governi al versamento di finanziamenti all’Agenzia; un blocco che finirebbe per penalizzare, oltre al milione e 300mila dentro la Striscia, anche i profughi palestinesi fuori da Gaza (2.117.361 in Giordania 774.167 in Cisgiordania, 528.616 in Siria e 452.669 in Libano).

Un monito chiaro e diretto Borrell lo ha rivolto agli Stati Uniti e agli altri Paesi fornitori di armi. Il «ragionamento logico» è: chi dice di voler far cessare il massacro, deve anche smettere di fornire i mezzi che lo alimentano.

«In tanti, e di recente anche il presidente americano Joe Biden – ha ricordato l’Alto rappresentante dell’Ue – hanno detto che le operazioni militari a Gaza non sono più proporzionate, che il numero dei civili uccisi è intollerabile. E questa valutazione viene fatta da sempre più persone nel mondo. Ma la mia domanda è: a parte le parole, che cos’altro pensate che debba essere fatto, se credete che il prezzo in termini di morti sia troppo alto? Ebbene, se credete che si stiano uccidendo troppe persone, forse dovreste fornire meno armi per evitare che così tante persone vengano uccise. Non è logico, questo?».

Nel 2006, durante la guerra in Libano contro Hezbollah, gli Stati Uniti agirono già in questa direzione, sospendendo la fornitura di armi a Israele «perché non voleva fermare la guerra», ha ricordato Borrell. Oggi però sembra che le cose vadano in senso inverso.

A dicembre, per esempio, Stati Uniti e Israele hanno firmato un importante accordo che prevede la fornitura di numerosi aerei da combattimento F-35 e F15 Al, insieme agli elicotteri Apache, secondo quanto riportato dal canale televisivo israeliano Channel 12. Questo accordo si aggiunge ad altre forniture di armi da guerra, munizioni e tecnologia militare.

Gli Usa sono in testa alla classifica dei fornitori di armi a Israele. Nell’ultimo decennio circa il 70 per cento delle armi israeliane è arrivato da oltre Oceano. Tra le aziende top mondiali, figurano proprio tre società statunitensi: la Lockheed Martin, la Raytheon Technologies e la Boeing.

Il secondo maggior fornitore di armi a Israele è la Germania, con una quota del 24 per cento, secondo i dati riportati dallo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). L’Italia si colloca al terzo posto col 5,6 per cento.

Per quanto riguarda Hamas, sebbene non ci siano dati ufficiali, si ritiene che il principale fornitore sia l’Iran. Ma un ruolo non marginale sembra averlo il Qatar, che foraggia Hamas in termini di soldi e di armi, oltre ad ospitare i dirigenti di Hamas e avere canali aperti anche con le milizie libanesi filoiraniane Hezbollah. Nel 2022, secondo i dati riportati da Rete Pace e Disarmo, l’export italiano delle armi è aumentato del 14 per cento. E le aziende italiane o con branche in Italia – Leonardo, Iveco Defence Vehicles, Mbda, Avio Aero (del gruppo GE Aviation) – sembrano essere state molto attive nei Paesi del Golfo. Il Qatar non a caso è tra i principali importatori di armi italiane e di sistemi di difesa.

A Roma il governo Meloni riferisce che «dallo scorso 7 ottobre non sono state rilasciate nuove autorizzazioni alla vendita di armamenti ad Israele» (così il ministro degli Esteri Antonio Tajani nella risposta scritta a un’interrogazione parlamentare del 13 dicembre alla Commissione Affari esteri e comunitari della Camera dei Deputati). Ciò non implica, comunque, la sospensione delle forniture già deliberate in precedenza (l’Unità per le autorizzazioni per le autorizzazioni dei materiali di armamento – in seno al ministero degli Esteri – nega, per ora, ulteriori informazioni sulle esportazioni in corso verso lo Stato ebraico).

«È il commercio delle armi ad alimentare le guerre», continua a ripetere papa Francesco. Ma si continua a guardare altrove. Ai conflitti in corso bisognerà aggiungere quelli di domani. Quelli che sembrano scoppiare all’improvviso, ma non prima di essersi ben riforniti dai mercanti di morte.

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