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Maisam Jaliuli: «Questa è l’ora della responsabilità»

Manuela Borraccino
15 marzo 2024
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Maisam Jaliuli: «Questa è l’ora della responsabilità»
Maisam Jaliuli

Nella grave crisi in corso è più che mai necessario continuare a costruire ponti fra arabi ed ebrei: parola di Maisam Jaliuli, amministratrice delegata dell’ong Tsofen, fondata per inserire giovani arabi israeliani nel settore dell’hi-tech.


«Non esito a dire che sono i mesi più difficili della mia vita. Quel sabato 7 ottobre 2023, insieme allo choc per la gravità dell’attacco, siamo stati in tanti, arabi ed ebrei, a veder crollare in poche ore tutto quel che abbiamo costruito e per cui lottiamo da decenni in Israele». Parla così Maisam Jaliuli, 51 anni, dal luglio 2022 co-amministratrice delegata (Chief executive officer) insieme all’omologo Revital Duek dell’organizzazione non governativa israelo-palestinese Tsofen e attivista di lungo corso per i diritti delle donne. Raggiunta in collegamento video, via internet, da Terrasanta.net in pausa pranzo – «Ma tanto siamo nel digiuno di Ramadan!» dice ridendo –, Jaliuli è un pezzo da novanta della minoranza araba (il 20 per cento dei cittadini israeliani). Lo è soprattutto per il suo impegno sociale e politico, ben prima di arrivare a dirigere questa ong con un piano quinquennale da 170 milioni di dollari per sviluppare l’innovazione e l’inserimento dei neo-laureati arabi nel settore dell’hi-tech. È stata infatti fra i dirigenti del maggiore sindacato israeliano, l’Histadrut, presidente di uno dei distretti regionali del maggiore movimento femminista, Na’amat, promotrice di campagne per la fine dell’occupazione nei Territori palestinesi e per il rafforzamento dell’inclusione dei cittadini arabi in Israele.

«Fin dai primi giorni, dopo lo choc del 7 ottobre, si è avvertito quanto il clima fosse cambiato in Israele, quanto i cittadini arabi fossero percepiti come nemici»

Il suo è un osservatorio privilegiato dal quale scrutare quanto sta avvenendo nel Paese dilaniato dalla guerra con Hamas. «Nella nostra organizzazione – spiega – lavorano 26 esperti dell’hi-tech: sette israeliani e 19 arabi, dunque con una percentuale invertita rispetto alla composizione demografica del Paese, ma soprattutto noi lavoriamo in collaborazione con circa 350 ingegneri impiegati in decine di piccole, medie e grandi imprese in Israele. Ebbene, fin dai primi giorni dopo lo choc del 7 ottobre si è avvertito quanto il clima fosse cambiato, quanto gli arabi fossero diventati dei nemici, anche perché erano alcuni ministri dell’attuale governo, come Itamar Ben Gvir, a cercare un’escalation, non solo a Gaza, e a incendiare gli animi più di quanto già non fossero sconvolti. Posso dire che nella nostra azienda ci siamo tutti sforzati, sin dall’inizio, di far prevalere il senso di responsabilità, la lucidità e la fermezza di fronte al clima di odio e di militarismo che si è diffuso in Israele: tutti, non solo nel direttivo, abbiamo avvertito l’importanza di affrontare insieme questa crisi, di rimanere uniti, di parlare apertamente di quello che ciascuno di noi provava. Dopo poche settimane abbiamo cominciato a ricevere decine di email di nostri collaboratori e partner arabi in aziende di tutto il Paese che lamentavano episodi di discriminazione e di diffidenza sui luoghi di lavoro. Così, a dicembre abbiamo promosso un sondaggio al quale hanno partecipato 330 ingegneri arabi: l’80 per cento ha denunciato quest’atmosfera di estrema ostilità, e il 70 per cento ha lamentato che i dirigenti ebrei israeliani non facessero nulla per contrastare la sfiducia. Otto su dieci dicono di avere paura delle reazioni dei colleghi se affermano di essere contrari alla guerra a Gaza. Molte donne religiose hanno paura di andare in ufficio con il velo, come facevano abitualmente, perché temono di essere insultate dai colleghi ebrei. Mai come oggi è stato così difficile essere cittadini arabi israeliani: avvertiamo l’odio e l’esclusione nella sfera pubblica».

«Questo è il momento di astenersi dai social media e lavorare, piuttosto, per la moderazione e la mediazione»

Ecco perché, dice Jaliuli, «questo è il momento di astenersi dai social media e lavorare, piuttosto, per la moderazione e la mediazione. Questo è il momento di esercitare al massimo grado la responsabilità, farsi carico personalmente di mitigare il più possibile la contrapposizione che si è creata, sperando che questa guerra finisca il prima possibile. Siamo andati a parlare con i capi delle aziende con cui collaboriamo per spiegare cosa fare. Abbiamo moltiplicato gli incontri di formazione online e in presenza, i colloqui con gli psicologi, i seminari con i colleghi senior su come gestire questa situazione».

Questo è anche il senso dei «cinque consigli per un buon Ramadan» che Tsofen ha inviato a tutte le imprese dell’hi-tech con cui collabora: si tratta di piccoli gesti, come ad esempio facilitare il digiuno con la flessibilità degli orari di lavoro, con riunioni organizzate al mattino e non a ridosso del tramonto; invitare tutti i colleghi a dei pasti iftar di convivialità; preparare delle porzioni di cibo da inviare alle famiglie indigenti. «Abbiamo raccomandato a tutti di cogliere questa opportunità del mese sacro per i musulmani – spiega – per promuovere una maggiore comprensione reciproca, culturale e religiosa sui luoghi di lavoro. Si tratta di creare occasioni di condivisione che, nei luoghi quotidiani, contrastino il clima che si respira nel Paese».

«Bisogna parlare con tutti, cercare di stringere legami con tutti i partner che rifiutano l’approccio militare e cercano una soluzione politica»

Laureata in Criminologia e in Sociologia e con un master in Leadership educativa, madre di tre figli, per l’instancabile attività politica e sociale a favore delle donne e dell’inclusione delle fasce più disagiate della popolazione Jaliuli è stata insignita di numerosi riconoscimenti, fra i quali il premio Gallanter del New Israel Fund conferito a personalità della società civile che si siano distinte nella leadership sociale. Anche oggi, nell’angoscia che attraversa il Paese, è ben presente nei forum dove la società civile israeliana prepara «il giorno dopo» in attesa che tacciano le armi. «In questo momento bisogna parlare con tutti, cercare di stringere legami con tutti i partner che rifiutano l’approccio militare e cercano una soluzione politica, e le donne sono un partner imprescindibile. È chiaro – ammette – che ci sono fra noi discorsi politici diversi: è vero che ci sono organizzazioni con una certa ambiguità e che ufficialmente non hanno tra i loro obiettivi la fine dell’occupazione, ma nei colloqui privati tutti ammettono che quello sarà il risultato perché bisogna trovare una soluzione definitiva alla condizione dei palestinesi, come il 7 ottobre ha dolorosamente dimostrato».

«Resto ottimista. Ci vorranno anni, ma usciremo da questa durissima crisi»

Per questo, chiosa con un sorriso, Jaliuli resta ottimista. «Lo sono anche oggi, e non solo per temperamento. Bisogna guardare la realtà in prospettiva: ci vorranno anni ma usciremo da questa durissima crisi. Se lei chiedesse oggi chi appoggia la soluzione dei due Stati, gli ebrei israeliani le risponderebbero che non lo vogliono, i palestinesi che non ci credono: eppure io sono sicura che fra due o tre anni saranno molto più numerose di oggi le voci che chiedono un negoziato di pace. Si è già messo in moto un processo, siamo già in cammino: per prima cosa deve esserci una tregua, poi bisognerà trovare il modo di sedersi intorno un tavolo e parlare. E la comunità internazionale, ne sono certa, stavolta avrà un ruolo più attivo che in passato. Tutti ormai sanno che dalla fine dell’occupazione dipende il futuro della democrazia in Israele».

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