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Jeff Halper: Gli estremisti vogliono una Cisgiordania meno araba

Giulia Ceccutti
2 dicembre 2023
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Jeff Halper: Gli estremisti vogliono una Cisgiordania meno araba
Jeff Halper (foto Icahd)

La nuova stagione di dolore e rabbia che dal 7 ottobre scorso avvelena israeliani e palestinesi ha dato mano libera agli ebrei estremisti che stanno cercando di sradicare intere comunità arabe dalla Cisgiordania. La denuncia di Jeff Halper.


«Dal 7 ottobre ad oggi sono state espulse almeno sedici comunità palestinesi all’interno dell’Area C dei Territori Occupati. Ora i coloni controllano i pascoli e i terreni agricoli che hanno requisito con la forza. Si tratta un territorio pari a circa il 10 per cento dell’Area C». A parlare, dall’altra parte dello schermo in videochiamata da Gerusalemme, è Jeff Halper, tra i fondatori e leader del Comitato israeliano contro la demolizione delle case (Icahd), organizzazione che dal 1997 denuncia la distruzione di abitazioni nei Territori Occupati.

Halper cita il sito dell’organizzazione israeliana B’Tselem, che riporta i nomi e la relativa popolazione dei villaggi di pastori sfollati. L’elenco è destinato ad allungarsi. Gli chiediamo di illustrare quanto sta avvenendo in queste settimane in Cisgiordania.

Violenza e impunità

«Oggi il dramma è a Gaza, naturalmente. L’esercito, gli ostaggi, Hamas…», dice alzando e allargando le braccia. «Questa è la grande, tragica storia che tutti noi stiamo seguendo con tanta apprensione. Ma al momento la storia più “politica” si sta svolgendo proprio in Cisgiordania, verso la quale c’è scarsa attenzione anche a livello internazionale». Halper spiega che nelle scorse settimane Israele ha permesso che gruppi di coloni estremisti vi prendessero di mira dozzine di comunità palestinesi. Un processo avviato già da mesi. «Questi coloni sono protetti dall’esercito che infatti è presente sul posto. C’è addirittura un’unità di militari composta da coloni provenienti da avamposti violenti. Si chiama Frontiera del deserto ed è responsabile di gravi violazioni dei diritti umani». Molti dei coloni violenti vestono oggi dunque un’uniforme, imbracciano armi fornite dall’esercito stesso, si presentano sotto la sua autorità.

Gran parte delle violenze si registra nell’Area C, che costituisce il 60 per cento dei Territori Occupati, è costellata di insediamenti ebraici e pienamente controllata dai militari israeliani, anche sotto il profilo amministrativo.

Dalla demolizione all’espulsione

Il leader di Icahd evidenzia come il tema della demolizione delle case rimanga centrale e su scala ogni giorno più ampia. «Le demolizioni sono sempre al centro del tentativo di “israelizzare” la Palestina», commenta. «Mentre nella Striscia di Gaza i bombardamenti hanno distrutto finora quasi la metà degli edifici, molti dei quali naturalmente sono abitazioni civili, in Cisgiordania stiamo assistendo non alla demolizione delle case ma, come dicevo, all’espulsione vera e propria della popolazione. Il tentativo dunque è quello di spingere i palestinesi fuori dalle loro terre, verso le Aree A e B dei Territori Occupati, oppure verso altri Paesi».

Chiediamo a Halper dove si siano spostati finora gli abitanti dei villaggi svuotati. Risponde che la tendenza è perlopiù quella di rifugiarsi nei villaggi vicini, dove spesso ci sono già legami familiari. Aggiunge che in gran parte si tratta di comunità rurali che vivono di pastorizia: «Molti non perdono solo la casa, ma anche greggi di pecore o capre. Così, raccolgono i loro pochi averi e si spostano in villaggi non ancora attaccati, o, in alcuni casi, nell’Area A o B, o nella Valle del Giordano. Un discorso diverso va fatto per i beduini che vivono nel sud: molti hanno legami in Giordania e si trasferiscono lì».

Un’ipotesi politica

«Ma c’è un quadro più ampio da tenere in considerazione», osserva Halper. «Un quadro che si sta preparando all’ombra di questa guerra a Gaza. Personalmente, credo che la direzione politica verso cui si sta andando, con l’avallo di Stati Uniti ed Europa, sia quella di creare – o meglio imporre – la soluzione dei due Stati, con certe caratteristiche. A mio avviso, s’intende creare uno Stato palestinese sul 15 per cento, al massimo il 20 per cento, della Palestina. Uno Stato composto da tre piccole “isole” costituite dalle attuali Area A e B, circondate da territorio israeliano. Ipotizzo un’isola nel nord della Cisgiordania – al di sotto della quale vi sarà l’insediamento di Ariel – al centro della Cisgiordania, tra Israele e la Valle del Giordano. Quindi un’altra area, nella zona di Ramallah, al confine con un territorio comprendente Gerusalemme e la colonia di Ma’ale Adumim, fino alla Valle del Giordano. Infine, l’area di Betlemme e circostante Hebron. Ecco perché parlo di tre “isole”, più – forse – la Striscia di Gaza (in parte spopolata e quindi più facilmente controllabile da parte di Israele)».

Secondo Halper, la distruzione operata su Gaza implica che parte della sua popolazione non possa più continuare a vivere lì: mancano infatti infrastrutture, case, acqua, opportunità per un’economia già in ginocchio.

«Credo – conclude – che non si prospetti alcun vero processo di pace, alcuna soluzione politica realmente condivisa, ma un sistema costituito da due Stati, di cui uno, quello palestinese, privo di continuità territoriale».

Il lavoro degli attivisti

Domandiamo allora quale tipo di lavoro stia portando avanti in queste settimane Icahd, insieme alla rete di organizzazioni contro l’occupazione – tra le quali Ta’ayush – con cui coopera.

«Non agiamo da soli», dice Halper. Alcuni gruppi operano nella Valle del Giordano, altri vicino a Nablus, altri ancora nel sud. Tutti cercano innanzitutto di proteggere i palestinesi e documentare quanto sta avvenendo in Cisgiordania.

«Stiamo anche girando un documentario per al Jazeera, che sarà pronto a febbraio», continua. «Scriviamo, parliamo con i diplomatici di vari Paesi… Cerchiamo, in sintesi, di mantenere l’attenzione sulla realtà quotidiana nei Territori. Ma credo fermamente che non dobbiamo essere solo degli attivisti che protestano. Dobbiamo collocare ciò che sta accadendo sul terreno, e che noi documentiamo, all’interno di un’analisi politica di respiro più ampio. Dobbiamo esserne consapevoli e continuare ad agire di conseguenza».

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