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Piano Trump per la pace a Gaza, c’è il sì di Hamas

Giampiero Sandionigi
4 ottobre 2025
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Piano Trump per la pace a Gaza, c’è il sì di <i>Hamas</i>
Manifestanti israeliani, il 29 settembre 2025 davanti al consolato Usa a Tel Aviv, chiedono a Trump di por fine alla guerra a Gaza e far liberare gli ostaggi. (foto Avshalom Sassoni/Flash90)

Nella serata del 3 ottobre è giunta anche la risposta positiva di Hamas al presidente statunitense Donald Trump che il 29 settembre scorso, alla Casa Bianca, aveva messo sul tavolo le sue carte per la pace in Terra Santa. Lettera del card. Pizzaballa ai fedeli della sua diocesi.


Donald Trump, notoriamente, non è uno che sa volare basso. Così nel pomeriggio del 29 settembre 2025 alla Casa Bianca, nell’incontro con la stampa affiancato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, esordisce definendo la giornata «potenzialmente uno dei giorni più grandi di sempre nella storia della civiltà», perché si sono gettate le basi per una pace «perenne ed eterna» non solo a Gaza, ma in tutto il Medio Oriente, dopo decenni, se non secoli e millenni di inimicizie…

Nella visione del presidente statunitense, la pace a Gaza – che dovrebbe essere raggiunta se tutte le parti accogliessero il nuovo Piano di Trump in 20 punti – sgombrerebbe anche il campo dagli ostacoli che impediscono ad altre nazioni mediorientali di aderire agli Accordi di Abramo. Un giorno, forse, anche l’Iran li sottoscriverà, preconizza l’inquilino della Casa Bianca.

Naturalmente tifiamo per la causa della pace in Terra Santa e in tutta la regione e auguriamo ogni successo a questo nuovo tentativo americano (altri predecessori di Trump ci hanno provato), tuttavia dobbiamo considerarne i contenuti con minore enfasi.

Donald Trump e Benjamin Netanyahu presentano il piano ai media accreditati alla Casa Bianca il 29 settembre 2025. (foto White House)

Anzitutto il Piano – fatto circolare e discusso nei giorni scorsi tra i governi amici degli Usa e tra tutte le maggiori nazioni arabe e musulmane d’Africa e Asia – è stato via via limato, emendato e smussato, in modo da ottenere anche il sì di Israele. A differenza di altri capi di Stato e di governo intervenuti alla Settimana di alto livello delle Nazioni Unite, Benjamin Netanyahu non è tornato a casa dopo il discorso pronunciato all’Assemblea generale dell’Onu venerdì 26 settembre; ha invece raggiunto Washington per negoziare con i più stretti consiglieri del presidente. I giornalisti meglio informati riferiscono che ha trascorso buona parte della domenica a discutere con l’inviato di Trump in Medio Oriente, Steve Witkoff, e con il genero del presidente, Jared Kushner, che pur non avendo alcun ruolo ufficiale in questa amministrazione rimane molto influente per tutto ciò che riguarda le questioni mediorientali. Qualcosa Netanyahu ha ottenuto, ma non tutto quanto sperava.

Anche Hamas aderisce

Trump spiega che i presidenti e capi di governo dei Paesi arabi e musulmani favorevoli al Piano sono impegnati a convincere Hamas. Un primo incontro si svolge la sera del 30 settembre tra diplomatici di Qatar e Turchia e rappresentanti del movimento islamista al fine di agevolare un sì. Trump si dice disposto ad attendere tre o quattro giorni. Senza l’assenso di Hamas – o nel caso in cui, successivamente, i terroristi non rispettassero gli impegni – Netanyahu si riserva di «finire il lavoro» con le cattive, forte del pieno appoggio della Casa Bianca.

Hamas la mattina del 3 ottobre chiede ancora tempo per valutare a fondo tutte le implicazioni del piano americano. I media mediorientali riferiscono di divergenze tra ala politica e ala militare del movimento islamista palestinese. A quel punto il presidente Trump fissa domenica 5 ottobre come scadenza. Nella tarda serata del 3 ottobre, a sorpresa, con un comunicato di Hamas pubblicato su Telegram e rilanciato poco dopo dallo stesso presidente Usa, arriva il sì tanto atteso, ma condizionato: disponibilità al rilascio degli ostaggi in tempi brevissimi e a lasciare l’amministrazione della Striscia ad altri, mentre si tace sul disarmo. Trump esprime subito soddisfazione e gratitudine ai partner arabi che hanno collaborato. Contestualmente chiede agli israeliani di sospendere le ostilità nella Striscia. I giornali israeliani, la mattina del 4 ottobre, riferiscono che le truppe hanno avuto ordine di sospendere le azioni offensive e porsi in modalità difensiva. Fonti palestinesi sul terreno riferiscono che il cessate il fuoco non è ancora totale e che ci sono decine di altri morti. Si lavora intanto – con negoziati che si aprono a Sharm el-Sheikh, in Egitto – ai dettagli tecnici per la liberazione degli ostaggi rapiti il 7 ottobre 2023 nel sud di Israele e di centinaia di detenuti palestinesi nelle carceri dello Stato ebraico.

In Israele c’era chi sperava in una risposta del tutto negativa di Hamas perché considera il cedimento di Netanyahu alle pressioni della Casa Bianca un arretramento intollerabile e una sconfitta della linea dura. Così la pensano, ad esempio, i ministri Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, che quanto a estremismo non sono secondi a nessuno.

Per la liberazione di ostaggi e detenuti

Con l’adesione al Piano di Trump, Hamas e gli altri movimenti terroristici della Striscia dovranno rilasciare tutti gli ostaggi vivi e le spoglie di quelli defunti nel giro di 72 ore. In totale si parla di 48 persone. Netanyahu nel suo discorso all’Onu ha fatto i nomi di chi è ancora in vita: Matan Angrest, Gali e Ziv Berman (due fratelli), Elkana Bohbot, Rom Braslavski, Nimrod Cohen, Ariel e David Cunio (anch’essi fratelli), Guy Gilboa Dalal, Evyatar David, Maxim Herkin, Eitan Horn, Segev Kalfon, Bar Kuperstein, Omri Meiran, Eitan Mor, Yosef-Haim Ohana, Alon Ohel, Avinatan Or e Matan Zangauker. Contemporaneamente tutte le armi dovrebbero tacere e Israele rilascerebbe un certo numero di detenuti palestinesi: il punto 5 precisa che «Israele libererà 250 detenuti condannati all’ergastolo più 1.700 abitanti di Gaza arrestati dopo il 7 ottobre 2023, comprese tutte le donne e i minori arrestati in quel contesto».

Per agevolare il rilascio degli ostaggi le truppe israeliane effettueranno un ritiro parziale dal territorio che controllano (fino alla linea gialla indicata nella mappa allegata al piano e qui riprodotta in italiano; attualmente sono attestate sulla linea blu e controllano gran parte della Striscia). Immediatamente verrà anche consentito un consistente afflusso di aiuti di generi alimentari e di prima necessità. Ad occuparsi della distribuzione saranno nuovamente le agenzie delle Nazioni Unite, la Mezzaluna Rossa e altre organizzazioni non legate a Israele o Hamas (punto 8).

Resa di Hamas e amnistia

Hamas e le altre organizzazioni armate palestinesi dovranno deporre le armi e accettare di non avere alcun ruolo politico e amministrativo diretto o indiretto nel futuro della Striscia (13). In compenso «i membri di Hamas che si impegneranno alla pacifica convivenza e alla consegna delle armi saranno amnistiati. I membri di Hamas che vorranno lasciare Gaza avranno un passaggio sicuro verso Paesi disposti a riceverli» (6).

Il domani di Gaza

L’Autorità nazionale palestinese non assumerà subito il controllo della Striscia. Prima dovrà condurre in porto un lungo processo di riforme, al termine del quale si potrà anche prendere in considerazione l’aspirazione palestinese a una propria forma di statualità (la vaghezza dell’espressione è voluta).

Per ora, e non si sa fino a quando, la Striscia verrà amministrata da «un comitato palestinese tecnocratico e apolitico, responsabile della gestione quotidiana dei servizi pubblici e municipali per la popolazione» (9). A supervisionare l’intera fase di transizione sarà un Consiglio per la pace, presieduto da Donald Trump («hanno tanto insistito perché accettassi», dice lui) e del quali faranno parte anche altri leader politici di rilievo di cui non sono ancora noti i nomi. L’unico menzionato espressamente nel Piano è l’ex primo ministro britannico Tony Blair.

Il Consiglio elaborerà un piano, ideato dallo stesso Trump, per ricostruire Gaza. Nessun gazese sarà costretto ad andarsene. Chi decidesse di partire manterrebbe il diritto a rientrare (12). Per agevolare l’afflusso di capitali e investimenti nella Striscia sarà istituita una zona economica speciale.

Israele si impegna a non annettere ed occupare militarmente la Striscia. Le sue forze armate cederanno progressivamente (e per fasi) il campo a una Forza internazionale di stabilizzazione, appositamente creata dagli Stati Uniti con partner arabi. Per ragioni di sicurezza l’esercito israeliano manterrà il controllo di una zona cuscinetto al limitare della Striscia.

Disarmare i cuori

Particolarmente significativi e indispensabili, a nostro avviso, sono i punti 18 e 20. Il primo dice che «sarà avviato un processo di dialogo interreligioso, fondato sui valori di tolleranza e della pacifica convivenza, per cercare di cambiare mentalità e narrazioni di palestinesi e israeliani, sottolineando i benefici che possono derivare dalla pace». È un percorso necessario su entrambi i versanti, e più volte auspicato anche da leader religiosi cristiani in Terra Santa. La speranza è che non restino parole al vento. L’ultimo punto dice che «gli Stati Uniti avvieranno un dialogo tra Israele e i palestinesi per concordare un orizzonte politico di pacifica e prospera coesistenza». Un percorso richiama l’altro.

Ultimo aspetto, non messo per iscritto nel Piano ma annunciato da Trump nella sua comunicazione ai media, è la creazione di un organismo tripartito tra Usa, Qatar e Israele per appianare le tensioni e divergenze deflagrate dopo il bombardamento israeliano su Doha dello scorso 9 settembre.

Cosa ne dice l’Autorità nazionale palestinese

Tra le reazioni al Piano Trump espresse il giorno dopo la sua ufficializzazione va registrato un comunicato dello Stato di Palestina, vale a dire dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), che ha sede a Ramallah in Cisgiordania. Il tono è conciliante e collaborativo. «Lo Stato di Palestina – esordisce la dichiarazione – accoglie con favore gli sforzi sinceri e determinati del Presidente Donald J. Trump per porre fine alla guerra di Gaza e afferma la sua fiducia nella sua capacità di trovare una via verso la pace. Sottolinea inoltre l’importanza della partnership con gli Stati Uniti per raggiungere la pace nella regione». Si noti che solo pochi giorni prima Trump aveva negato a tutti gli altri funzionari dell’Anp e dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) i visti d’ingresso negli Stati Uniti per partecipare ai lavori dell’Assemblea delle Nazioni Unite.

Il comunicato afferma la volontà del governo palestinese di collaborare con gli Stati Uniti e gli altri partner per porre fine alla guerra di Gaza e onorare «gli impegni assunti dallo Stato di Palestina alla Conferenza Internazionale di New York riguardo al completamento del programma di riforma palestinese — compresa la celebrazione di elezioni presidenziali e parlamentari entro un anno dalla fine della guerra, e assicurando che tutti i candidati alle elezioni aderiscano al programma politico, agli impegni internazionali, all’OLP, alla legittimità internazionale e al principio di un sistema, una legge e una forza di sicurezza palestinese legittima… Abbiamo affermato il nostro desiderio per uno Stato palestinese moderno, democratico e non militarizzato, impegnato nel pluralismo e nel trasferimento pacifico del potere». Se con la passata amministrazione Trump i rapporti tra Ramallah e Washington si erano del tutto interrotti, ora «lo Stato di Palestina afferma la sua disponibilità a impegnarsi in modo positivo e costruttivo con gli Stati Uniti e tutte le parti al fine di raggiungere pace, sicurezza e stabilità per i popoli della regione».

Resta da vedere se e con quanta determinazione le riforme verranno attuate. Non sarebbe la prima volta che promesse solenni, anche espresse davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite, vengono disattese.

Qualche dubbio

Tra le maglie di questo nuovo piano Trump si insinuano dubbi e incognite. Eccone alcuni.

• Il punto 17 recita così: «Nel caso in cui Hamas ritardi o respinga questa proposta, quanto sopra, incluso l’ampliamento delle operazioni di aiuto, procederà comunque nelle aree liberate dal terrorismo e consegnate dalle IDF all’ISF [la Forza internazionale di stabilizzazione che verrà appositamente creata – ndr]». In realtà Netanyahu alla Casa Bianca il 29 settembre ha detto qualcosa di diverso. In sostanza: «Otterremo il nostro obiettivo di sconfiggere Hamas con le buone o con le cattive. Se Hamas rifiuta questa proposta, Israele andrà fino in fondo, anche da solo». Trump gli ha assicurato il pieno sostegno americano e il giorno dopo ha nuovamente evocato l’eventualità di scatenare l’inferno. Sarà possibile consegnare aiuti senza intoppi anche se i combattimenti ferveranno?

• «Nessuno sarà costretto a lasciare Gaza, e chi vorrà partire sarà libero di farlo, così come di tornare. Incoraggeremo le persone a restare, offrendo loro la possibilità di costruire una Gaza migliore», si legge al punto 12. L’interrogativo è: che volto si vorrà dare alla nuova Gaza? E che ne sarà dei diritti delle famiglie gazesi sugli immobili distrutti dalle bombe? Considerato che si evoca un «piano economico di sviluppo ideato da Trump» (al punto 10), non c’è il rischio della gentrificazione? Costruire, eventualmente, palazzi di pregio e stabilimenti balneari eleganti creerebbe certamente posti di lavoro ma sospingerebbe alle periferie – o indurrebbe ad emigrare – chi non è abbiente.

• Netanyahu ha detto sì a Trump, ma la sua maggioranza parlamentare resterà intatta? E se dovesse perdere qualche pezzo che non gradisce il piano (il ministro Bezalel Smotrich e i suoi, ad esempio) altri partiti ora all’opposizione sarebbero disposti a puntellare il governo?

Lo Stato di Palestina. Il piano lo evoca blandamente. Israele non lo prende in considerazione. Netanyahu, davanti a un’Assemblea dell’Onu semideserta, il 26 settembre scorso ha ribadito che non è solo il suo governo a non volerlo, ma la maggioranza degli israeliani. Quando verrà il momento di riconoscere ai palestinesi il diritto all’autodeterminazione?

Il cardinale Pizzaballa scrive ai fedeli della sua diocesi

Si scorge un sospiro di sollievo, misto a realismo, nella lettera che il patriarca latino di Gerusalemme indirizza a tutti i fedeli della sua diocesi. Una missiva che reca la data di domani, 5 ottobre 2025, ma è stata scritta oggi, nella festa di san Francesco d’Assisi, dopo la notizia del cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e dell’imminente liberazione di ostaggi e detenuti.

«Siamo lieti – scrive il cardinale Pierbattista Pizzaballa in un passaggio della lettera – che vi sia qualcosa di nuovo e positivo all’orizzonte. Attendiamo il momento per gioire per le famiglie degli ostaggi, che potranno finalmente abbracciare i loro cari. Ci auguriamo lo stesso anche per le famiglie palestinesi che potranno abbracciare quanti ritornano dalla prigione. Gioiamo soprattutto per la fine delle ostilità, che ci auguriamo non sia temporanea, che porterà sollievo agli abitanti di Gaza. Gioiamo anche per tutti noi, perché la possibile fine di questa guerra orribile, che davvero sembra ormai vicina, potrà finalmente segnare un nuovo inizio per tutti, non solo israeliani e palestinesi, ma anche per tutto il mondo. Dobbiamo comunque restare con i piedi per terra. Molto resta ancora da definire per dare a Gaza un futuro sereno. La cessazione delle ostilità è solo il primo passo – necessario e indispensabile – di un percorso insidioso, in un contesto che resta comunque problematico».

→ Clicca qui per scaricare la lettera integrale del card. Pizzaballa in formato pdf

«Potenza, forza, violenza – riflette ancora il patriarca – sono diventati il criterio principale sul quale si fondano i modelli politici, culturali, economici e forse anche religiosi del nostro tempo. Abbiamo sentito molte volte ripetere in questi ultimi mesi che bisogna usare la forza e solo la forza può imporre le scelte giuste da fare. Solo con la forza si può imporre la pace. Non sembra che la storia abbia insegnato molto, purtroppo. Abbiamo visto nel passato, infatti, cosa producono violenza e forza. Dall’altro lato, però, in Terra Santa e nel mondo, abbiamo assistito e vediamo sempre più spesso la reazione indignata della società civile a questa arrogante logica di potere e di forza. Le immagini di Gaza hanno ferito nel profondo la comune coscienza di diritti e di dignità che abitano il nostro cuore. Questo tempo ha messo alla prova anche la nostra fede. Anche per un credente non è scontato vivere nella fede tempi duri come questo. A volte percepiamo forte dentro di noi la distanza tra la durezza degli eventi drammatici da un lato, e la vita di fede e di preghiera dall’altro. Come se fossero lontane l’una dall’altra. L’uso della religione, inoltre, spesso manipolata per giustificare queste tragedie, non ci aiuta ad accostarci con animo riconciliato al dolore e alla sofferenza delle persone. L’odio profondo che ci invade, con le sue conseguenze di morte e dolore, costituisce una sfida non indifferente per chi vede nella vita del mondo e delle persone un riflesso della presenza di Dio».

«Da soli – soggiunge il cardinale – non riusciremo a comprendere questo mistero. Con le nostre sole forze non riusciremo a stare di fronte al mistero del male e a resistergli. Per questo sento sempre più impellente il richiamo a tenere fisso lo sguardo su Gesù (cf. Eb 12,2). Solo così riusciremo a mettere ordine dentro di noi e a guardare alla realtà con occhi diversi. E insieme a Gesù, come comunità cristiana vorremmo raccogliere le tante lacrime di questi due anni: le lacrime di chi ha perso parenti, amici, uccisi o rapiti, di chi ha perso casa, lavoro, paese, vita, vittime innocenti di una resa dei conti di cui ancora non si vede la fine».

[la prima versione di questo articolo è stata pubblicata il 30 settembre 2025]

Ultimo aggiornamento: 04/10/2025 15:48


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