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Gli israeliani del dissenso: «Fermiamo la guerra adesso»

Manuela Borraccino
27 maggio 2025
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Gli israeliani del dissenso: «Fermiamo la guerra adesso»
Sulle bandiere nere nei poster di Zazim campeggia lo slogan: «Rifiutiamo di partecipare a crimini di guerra».

Poster nelle strade, video sui social, azioni di difesa dei palestinesi in Cisgiordania: l’organizzazione Zazim, con oltre 400mila sostenitori in Israele, chiede la fine alla guerra a Gaza. Ne parliamo con la fondatrice e direttrice Raluca Ganea.


La foto sembra riecheggiare le urla: un bambino palestinese allunga una ciotola nella calca durante una distribuzione di pasti a Gaza. Una scritta in ebraico recita: «E se fosse stato tuo figlio? Il governo israeliano sta affamando due milioni di persone a Gaza in tuo nome». I poster disseminati in tutto Israele sono uno degli strumenti dell’ultima campagna promossa dall’organizzazione Zazim (in ebraico: «Ci muoviamo») per cercare di mobilitare il maggior numero possibile di israeliani e indurli a chiedere la fine della guerra. «Mi sono assicurata che campeggiasse in modo ben visibile anche sul muro davanti all’uscita della scuola elementare di mio figlio» rimarca a Terrasanta.net Raluca Ganea, 46 anni, fondatrice e direttrice di ZazimCommunity Action: l’associazione apartitica per il cambiamento politico nata nel 2015 come agenzia digitale è divenuta uno dei maggiori partner di It’s time, la coalizione di 60 organizzazioni che qualche settimana fa, l’8 e 9 maggio, ha promosso a Gerusalemme un Vertice popolare per la pace (People’s peace summit).

Raluca Ganea

Nata in Romania, Raluca aveva tre anni e mezzo quando tornò dall’asilo e disse alla madre: «Tu non sei la mia vera mamma. Elena Ceaușescu è la madre di tutti i rumeni!». «Per i miei genitori quello fu un potente campanello di allarme: fecero le valigie e ci trasferimmo in Israele. Con un esordio del genere, la mia vita non poteva che essere dedicata alla democrazia» dice ridendo. Avrebbe dovuto esserci anche lei il 4 novembre 1995 in piazza a Tel Aviv la sera in cui Itzhak Rabin venne assassinato, ma il titolare del negozio dove lavorava le chiese di restare: «Ricordo ancora oggi lo choc di quella notte, lo stupore di fronte ai giovani di estrema destra che inneggiavano alla sua morte sull’autobus che mi riportava a casa dal lavoro… Da quel giorno, di fatto, non abbiamo più avuto una visione alternativa a quella che Netanyahu e i suoi alleati hanno imposto al Paese».

Così, dopo la laurea in Scienze politiche e Filosofia all’università di Tel Aviv, Raluca ha iniziato a lavorare alla piattaforma Avaaz mentre aderiva a varie associazioni della società civile fra le quali A land for all del cui direttivo è oggi uno dei membri. Dieci anni fa, sfidando lo scetticismo di chi non credeva che un’associazione di attivismo digitale potesse prendere piede in Israele, ha deciso di fondare Zazim – Community Action, aperta del 2016 con il sostegno del New Israel Fund e attiva con agenzie gemelle in vari Paesi del mondo, dalla Germania al Canada. Oggi nel suo staff lavorano dieci persone e oltre 400mila a vario titolo la sostengono.

• Raluca Ganea, perché le proteste delle piazze israeliane restano inascoltate dal governo?

In Israele la contraddizione tra una società civile forte e l’attuale governo, che da tempo non rappresenta la volontà della maggior parte degli israeliani, dipende da molti fattori. Innanzitutto il nostro sistema politico ha subito un degrado costante negli ultimi vent’anni. È almeno a partire dal 2009 che Netanyahu lavora alacremente per minare alle fondamenta la separazione dei poteri, per cancellare il sistema di pesi e contrappesi esistenti in qualsiasi Paese che voglia definirsi una democrazia. Il tentato coup giudiziario del gennaio 2023, con il quale tra l’altro i giudici e i magistrati sarebbero stati messi sotto l’esecutivo, è stato il punto di arrivo di un processo iniziato molti anni fa e che ha visto tra l’altro indebolire fortemente il parlamento. L’opposizione oggi in Israele è quasi inutile, e con un’opposizione incapace di offrire un’alternativa è estremamente difficile tradurre quello che stiamo chiedendo nelle manifestazioni e con il volontariato in un cambiamento effettivo, che ovviamente deve essere approvato da un governo. Quando una democrazia non funziona in modo corretto, gli effetti delle disfunzioni sono a cascata: all’attuale governo israeliano non potrebbe importare di meno delle centinaia di migliaia di persone che scendono in strada chiedendo che si dimetta. Chi sta al governo risponde soltanto a segmenti specifici, che tra l’altro costituiscono una piccola minoranza del pubblico. Il fatto stesso che Netanyahu si sia rifiutato di dimettersi dopo il 7 ottobre è un’altra disfunzione, che non sarebbe stata accettata in un normale Paese democratico. Una terza disfunzione è che la Corte suprema è stata talmente indebolita da non essere in grado di costringerlo alle dimissioni o prendere qualsiasi tipo di provvedimento giudiziario che potesse fermarlo. Oggi molti più israeliani si rendono conto del degrado in cui versa tutto il nostro sistema politico-istituzionale. Ed il fatto che non tengano conto del livello di dissenso, di impopolarità e di malcontento che si leva dalle piazze mostra ancora di più l’urgenza di riformare il sistema: in me resta la certezza che insieme a tutti i nostri attivisti prima o poi riusciremo a sbarazzarci di questi personaggi.

• Quali sono le responsabilità dell’opposizione in questo stallo?

«Per troppi anni l’opposizione in Israele e una buona parte delle associazioni della società civile sono state troppo concentrate a “resistere” al governo anziché offrire una visione politica alternativa positiva alla società israeliana. Non si può soltanto reagire di fronte a dei provvedimenti sbagliati: devi anche proporre un’idea diversa e indicare come intendi realizzarla. L’altro fattore è il timore dell’opposizione di apparire troppo decisa nel trasformare quello che i sondaggi dicono in un messaggio chiaro e concreto: di fatto hanno paura di sembrare troppo di sinistra, e non puoi vincere se non ti poni alla guida di un cammino chiaro, che riesca ad attrarre tutti quei voti dell’elettorato di centro che oggi non si sente rappresentato da Netanyahu e dai suoi alleati.

• Quale alternativa proponete?

«E se fosse stato tuo figlio?», recitano i manifesti affissi in molti luoghi di Israele da Zazim.

Personalmente ho aderito dalla prima ora all’associazione A Land for All proprio perché offre una visione chiara di come vediamo il futuro e di cosa intendiamo fare per realizzarlo. L’altra iniziativa nella quale credo fortemente, e sulla quale ho investito le mie energie personali e quelle di Zazim, è la coalizione di 60 ong It’s time. Ovviamente in questo momento siamo concentrati sul porre fine alla guerra a Gaza, ma stiamo lavorando anche sul giorno dopo, sul preparare il terreno per un accordo politico di pace con i palestinesi, perché sappiamo che è l’unica strada che possa assicurarci il futuro. Stiamo cercando di portare questo tema all’attenzione del pubblico ebraico israeliano, affinché sia la priorità della campagna elettorale quando ci saranno le elezioni. Ci siamo appena incontrati due settimane fa a Gerusalemme ed è stato estremamente significativo.

• Come pensate di influire sulle elezioni?

Le organizzazioni della società civile sono estremamente limitate nella loro azione, poiché nel sistema israeliano alle ong è proibito per legge sostenere formazioni politiche per evitare finanziamenti illeciti dei partiti. Ma quello che possiamo fare e stiamo facendo, attraverso It’s time, è porre questo urgente bisogno di un accordo politico per la fine del conflitto israelo-palestinese basato sulla creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele in cima all’agenda politica, e su questo esigere che i partiti in corsa alle elezioni prendano posizione. Ad esempio all’ultimo raduno sono intervenuti i leader di cinque partiti dell’opposizione, e abbiamo ricevuto un messaggio del presidente francese Emmanuel Macron e dell’Alta rappresentante della politica estera dell’Unione europea, Kaja Kallas. Questa coalizione è davvero la dimostrazione che la somma è superiore alle singole parti: sappiamo che è l’endorsement di personalità influenti della comunità internazionale a suscitare l’interesse dei nostri politici, quindi speriamo che al prossimo evento possa intervenire anche Yair Lapid. Anche senza concorrere alle elezioni possiamo influire sul discorso pubblico e costringere i leader dei partiti a prendere posizione su temi chiave.

• In che modo la guerra a Gaza ha cambiato la percezione generale?

Penso che questi 20 mesi abbiano cambiato la percezione degli israeliani sulla posta in gioco per Israele. Poi sono aumentati i manifestanti: molte persone non si oppongono più solo passivamente a continuare la guerra, ma si rifiutano di prendervi parte. Questo è un aspetto nuovo che incoraggia la nostra lotta. Perché ci è voluto così tanto tempo? Perché quello che sta avvenendo a Gaza è orribile, ma la maggior parte degli israeliani pensa a sbarcare il lunario e ha vissuto questi 20 mesi nella paura esistenziale per la propria vita che genera anche ripiegamento e mancanza di speranza. Tantissime persone stanno dimostrando da quasi due anni per il rilascio degli ostaggi e la fine della guerra, ma non abbiamo ottenuto nulla. E nel frattempo devi lavorare, portare i bambini a scuola, far fronte ai missili e alle sirene, gestire la paura e tutta questa instabilità… Credo che adesso si stia creando un maggiore spazio di manovra per chi chiede la tregua e molte più persone si rendono conto che questa guerra non ci porta da nessuna parte: c’è una maggiore consapevolezza che così tante cose orribili vengono commesse a Gaza in nome di tutti noi, e questo sta finalmente provocando il rifiuto della maggior parte degli israeliani di prendere parte a questa catastrofe.

«Fermare la guerra adesso!», ripetono gli striscioni e i cartelli dei manifestanti israeliani di Zazim.

• I prossimi passi?

Attualmente lavoriamo su due obiettivi: porre fine alla fame a Gaza e aumentare il numero di persone che rifiutano di essere complici. In questo momento abbiamo dei poster disseminati in tutto il Paese con lo slogan Non nel mio nome e altri strumenti che sensibilizzino le persone. Perché un’altra disfunzione della nostra democrazia è che i media in ebraico non parlano di quello che sta avvenendo a Gaza, o in Cisgiordania. E solo una parte degli israeliani si informa sui siti in inglese. Un altro degli strumenti che usiamo è la bandiera nera, un simbolo assai iconico in Israele perché rimanda al massacro di Kafr Qasim compiuto il 29 ottobre 1956 dalle forze israeliane contro donne, bambini e civili palestinesi cittadini israeliani. Nel successivo processo contro le forze armate la Corte suprema emise una sentenza secondo la quale di fronte ad un ordine illegale i soldati hanno il dovere di boicottarlo, e che nessun militare può essere perseguito penalmente per essersi rifiutato di obbedire ad un ordine palesemente illegittimo: da allora la bandiera nera evoca il rifiuto di eseguire ordini illegali ed è un simbolo fortemente evocativo per tutta una generazione di anziani, che apprendevano a scuola a memoria la lezione di questo episodio e interiorizzavano il messaggio che si possono ricevere richieste nel servizio militare di fronte alle quali abbiamo il diritto e il dovere di dire: non voglio prendere parte a questo. Per questo, anche oggi, con questo simbolo potente vogliamo fornire agli israeliani un ethos positivo, di obiezione personale alla guerra oltre la reazione emotiva di dire a sé stessi e agli altri: quello che stiamo facendo è orribile, perché non ci aiuta e non basta la sola reazione emotiva. Vogliamo affermare una presa di posizione che possa invece restituire agli israeliani l’ethos e il senso di appartenenza ad un fronte alternativo alla guerra: attraverso una delle nostre campagne stiamo diffondendo molti video dei nostri attivisti che affermano con la bandiera nera e la scritta Non nel mio nome che rifiutano di aderire alle politiche del governo. Inoltre continuiamo tutti i mesi ad andare in Cisgiordania con i nostri attivisti per difendere il più possibile i villaggi palestinesi da eventuali attacchi.

• Che cosa le dà speranza?

L’attività con It’s time e con le altre associazioni mi dà tanta speranza perché non si tratta solo di non fare qualcosa, ma di avere una visione del futuro. E poi ciascuno di noi trae tantissima forza dalle nostre comunità di attivisti, ebrei e arabi: lavorare per far entrare le persone in azione, lavorare per il cambiamento politico con colleghi che sono anche amici è una sorgente di energia per tutti. Nonostante la frustrazione per non riuscire a cambiare la nostra situazione politica, sappiamo che il lavoro degli attivisti è basato sulla pazienza e sulla endurance, ovvero sulla resistenza alla fatica mentre corri, sulla tenacia che è frutto dell’allenamento e della disciplina. La storia ci insegna che ci vuole tantissimo tempo per i cambiamenti sociali, e la dedizione di moltissime persone. Ottenere il cambiamento che cerchiamo dipende da molti fattori: dalle dinamiche interne alla società ebraica israeliana e dalla sua rappresentanza politica, dalla comunità internazionale della quale abbiamo più che mai bisogno… Noi possiamo fare solo la nostra parte, al meglio di quello che riusciamo, seminando un futuro diverso per noi e per i nostri figli. Di sicuro non possiamo permetterci il lusso di non fare la nostra parte: per me è un dovere morale, e a maggior ragione con quello che sta succedendo.

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