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Gaza, il Piano Trump alla prova dei fatti

Giuseppe Caffulli
23 ottobre 2025
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Gaza, il Piano Trump alla prova dei fatti
Distribuzione di razioni alimentari del Pam nel capoluogo della Striscia di Gaza il 23 ottobre 2025. (foto Ali Hassan/Flash90)

Se il progetto Trump vuol funzionare davvero, servono passi concreti: aiuti veri, riforme trasparenti, smilitarizzazione sotto controllo internazionale, ritiro effettivo di Israele, e la garanzia che Gaza non sia più un terreno di battaglia per altri interessi.


A due settimane dall’annuncio del cosiddetto Piano Trump per Gaza, firmato virtualmente da tutte le parti coinvolte, il progetto di pace in 20 punti si muove tra aperture promettenti e ostacoli concreti. L’idea, ambiziosa e controversa, punta a disinnescare il conflitto con Hamas, smilitarizzare la Striscia di Gaza e gettare le basi per una governance tecnica e una ricostruzione sostenuta da fondi e attori internazionali, sotto la supervisione del presidente degli Usa Donald Trump. Tuttavia, mentre scriviamo, l’attuazione dei punti chiave appare ancora parziale, e in certi casi contraddetta dai fatti sul terreno.

Una tregua fragile

Il primo obiettivo, quello della cessazione delle ostilità, è stato formalmente raggiunto il 10 ottobre, con una tregua entrata in vigore e confermata dalle parti. Ma la realtà sul campo racconta un’altra storia: secondo fonti interne a Gaza, Israele ha violato il cessate il fuoco diverse volte nelle prime dieci giornate, con decine di palestinesi uccisi. Tel Aviv sostiene che si tratta di «interventi mirati contro obiettivi che minacciano la sicurezza nazionale». È una narrazione che si ripete: la tregua è una finestra, non una garanzia. E se la violazione è strutturale, il piano rischia il naufragio prima ancora di salpare.

Molto rumore, pochi camion

Uno dei punti cardine del piano è l’accesso illimitato e non interferito degli aiuti umanitari, gestiti da Onu, Mezzaluna Rossa e operatori neutrali. In teoria, l’ingresso di aiuti dovrebbe essere «immediato e integrale». In pratica, secondo il Programma alimentare mondiale (Pam), il flusso attuale è inferiore a 750 tonnellate al giorno, rispetto a un fabbisogno stimato di oltre 2 mila. In alcune aree, le panetterie hanno ripreso a lavorare, ma mancano ovviamente ancora elettricità stabile, acqua potabile e accesso regolare alle cure sanitarie. Il valico di Rafah, simbolo e passaggio strategico, rimane aperto a intermittenza, spesso soggetto a controlli israeliani o restrizioni egiziane.

Il punto 7 del piano, che promette il ripristino delle infrastrutture, la rimozione delle macerie e la riabilitazione di ospedali e servizi di base, avrà bisogno di tempi lunghi. Il rischio è che la popolazione percepisca la tregua come un congelamento del conflitto, più che come l’inizio di una nuova era. Nel frattempo, la scelta di molti (la maggior parte, nelle aspettative di certi leader politici israeliani) sarà quella dell’emigrazione.

E Hamas?

Il nodo più difficile da sciogliere è ovviamente quello di Hamas. Il piano prevede la sua esclusione completa da ogni forma di governo, la distruzione delle infrastrutture militari e una smilitarizzazione verificata da osservatori internazionali. In cambio, ai membri disarmati sarebbe garantita l’amnistia o un «passaggio sicuro» verso Paesi terzi. Siamo tuttavia ancora ben lontani da un simile scenario. Nonostante l’apparente accettazione del piano da parte di Hamas, i servizi segreti occidentali confermano che numerose fazioni armate restano attive, che gallerie e cunicoli sotterranei non sono stati tutti distrutti, e che la capacità offensiva del gruppo, seppur ridotta, è ancora presente. Alcuni attacchi sporadici hanno già messo alla prova la tregua.

Il processo di smilitarizzazione e reinserimento, centrale nel piano, necessita di un apparato credibile: una forza internazionale di stabilizzazione che al momento non è ancora operativa e che dovrebbe sostituire le forze armate israeliane nei territori «liberati». La formazione di nuove forze di polizia palestinesi, sarebbe in capo a Egitto e Giordania. Una sfida enorme, considerando il vuoto di potere e la sfiducia reciproca tra popolazione e istituzioni.

Una governance (im)possibile

Il cuore del piano è forse il più delicato dei 20 punti: la creazione di un’amministrazione transitoria composta da tecnici palestinesi qualificati e monitorata da un Consiglio per la pace internazionale, presieduto da Donald Trump. Il presidente – che guarda chiaramente alle elezioni parlamentari di metà mandato nel 2026 – si è proposto come garante di una «Nuova Gaza», promettendo miliardi di investimenti e una zona economica speciale, una sorta di «paradiso fiscale» sulle sponde del Mediterraneo.

Si sta facendo strada anche l’idea di una risoluzione e di un’adozione del Piano in sede Onu, ma ad oggi non esiste alcuna struttura operativa. L’Autorità palestinese, che dovrebbe essere riformata per poi eventualmente riprendere il controllo della Striscia, è ancora impantanata in dinamiche interne, accuse di corruzione e una legittimazione popolare fortemente erosa. Chi governerà Gaza domani, e con quali strumenti? Il piano resta piuttosto vago.

Per non parlare della Cisgiordania, che non viene neppure menzionata nei punti di Trump. Se non si fermano le violenze dei coloni nei Territori occupati ai danni dei palestinesi, quale pace potrà mai sbocciare per Gaza?

Un’occupazione strisciante

Israele, da parte sua, ha assicurato che «non occuperà né annetterà Gaza». Tuttavia, notizie recenti parlano della creazione di una Linea gialla di demarcazione che separa le aree sotto controllo dell’esercito israeliano da quelle «consegnabili». Una linea d’azione che ricorda più un’occupazione permanente che un ritiro strategico. La consegna progressiva dei territori alla futura autorità internazionale richiede tempi, mezzi e soprattutto una fiducia che oggi manca. Se la presenza israeliana dovesse prolungarsi indefinitamente in nome della sicurezza, l’intero piano perderebbe credibilità agli occhi della popolazione palestinese e della comunità internazionale.

Un piano in cerca d’autore

Ci sono, tuttavia, segnali positivi da non sottovalutare. Il dialogo, seppur fragile, è ripartito. Gli Stati Uniti hanno rilanciato la propria iniziativa diplomatica in Medio Oriente, con l’obiettivo di arrivare a un nuovo quadro politico che tenga insieme sicurezza israeliana e una qualche forma di autodeterminazione palestinese. L’Onu ha salutato il piano come «un passo nella giusta direzione». I Paesi del Golfo (in particolare Arabia Saudita e Qatar) hanno promesso investimenti e supporto tecnico per la ricostruzione. Ma il tempo stringe.

L’impressione è che questo piano, se non sostenuto da atti concreti, rischi di trasformarsi nell’ennesima occasione perduta. La pace, come la guerra, si costruisce con le decisioni di ogni giorno. E al momento, sul terreno, la popolazione di Gaza continua a vivere in un limbo: senza guerra aperta, ma anche senza una vera pace.

Se il progetto Trump vuole diventare qualcosa di più di una lista di buone intenzioni, servono passi concreti. Aiuti veri, accesso senza ostacoli, riforme trasparenti, smilitarizzazione sotto controllo internazionale, ritiro effettivo di Israele, e soprattutto la garanzia che Gaza non sia più un terreno di battaglia per altri interessi. Solo allora, forse, sarà l’inizio di un nuovo capitolo, e non l’ennesimo documento da archiviare sotto la voce «fallimenti diplomatici».

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