«Noi riteniamo che oggi più che mai le commemorazioni congiunte fra israeliani e palestinesi siano una sorgente di riconciliazione, tanto più nel momento in cui viviamo una nuova Nabka e una riattivazione del trauma storico che rappresenta un tabù per gli israeliani», rimarca in un colloquio con Terrasanta.net Rana Salman, condirettrice palestinese di Combattenti per la pace. «Sappiamo di dover lavorare tantissimo all’interno della società ebraica israeliana, a cominciare dalla scuola, per diffondere una narrazione alternativa del 1948 e per far conoscere lo sguardo dell’altro sulla storia di questa terra condivisa e sulla illegittimità dell’occupazione», le fa eco in un italiano fluente l’omologa Eszter Koranyi, di origini ungheresi, che circa 15 anni fa ha deciso di fare il salto dalla cittadinanza europea anche a quella israeliana.
Nei panni dell’altro
Rana ed Eszter lavorano da mesi all’organizzazione della sesta commemorazione congiunta della Nakba (la “Catastrofe”, come viene ricordato tra i palestinesi il 1948), mentre lo scorso Primo maggio è stato celebrato il 77esimo anniversario della proclamazione dello Stato ebraico da parte di David Ben Gurion. L’appuntamento è per la sera di giovedì 15 maggio alle 20 a Beit Jala – un sobborgo di Betlemme, in Cisgiordania – sul tema Aggrappati alla casa, aggrappati alla speranza, con una dozzina di proiezioni in Israele, Territori palestinesi e all’estero [aggiornamento del 16 maggio 2025: è possibile rivedere su YouTube la registrazione video dell’evento cliccando sull’immagine qui sotto – ndr].
L’occasione di incontro fra palestinesi e israeliani è ancora più significativa con la guerra in corso e dopo che lo scorso 29 aprile dei militanti di estrema destra hanno fatto irruzione nella sinagoga di Ra’anana, a 20 chilometri da Tel Aviv, durante una delle 120 proiezioni in Israele e all’estero del 20esimo Memorial Day congiunto: l’assalto con lanci di pietre e petardi ha provocato il ferimento di quattro poliziotti e di tre partecipanti alla cerimonia.
«Questa – constata Koranyi – è la realtà che noi affrontiamo: la paura genera odio, e l’odio si trasforma in intimidazione e violenza. Eppure, anche di fronte a questa ostilità, la nostra gente è rimasta in piedi. Restiamo pienamente a fianco a chiunque nel resto del mondo scelga di ascoltare le voci del dolore, dell’empatia e della resistenza, piuttosto che alimentare il militarismo, le accuse e il nazionalismo. Ringraziamo tutti coloro che non si girano dall’altra parte e scelgono invece di confrontarsi con il dolore dell’altro, rendere testimonianza non solo delle perdite dentro Israele, ma della devastazione in corso in Cisgiordania e a Gaza, dove infuria la guerra e aumenta la fame. Il 15 maggio vogliamo ribadire che l’umanità e la speranza vengono prima di qualsiasi altra cosa».
Il senso di ricordare insieme la Catastrofe, sottolinea Rana con accenti simili a quelli che da diversi anni si levano negli ambienti ebraici europei per il giorno della Memoria il 27 gennaio, «non è quello di rinnovare il dolore per quello che è avvenuto 77 anni fa ma di riconoscere il passato, far proprio quel monito e superare quel dolore per forgiare un futuro diverso per entrambi i popoli». «Riteniamo che la riconciliazione e la guarigione delle ferite passi per questo riconoscimento. Sappiamo che la Nabka è un tabù per la maggior parte della società israeliana, ma attraverso le testimonianze dei profughi del ’48 e dei loro discendenti cerchiamo di portare avanti questa eredità».
Rana, guida e attivista
Classe 1984, nata in una famiglia cristiana di Gerusalemme con il papà impiegato nel turismo, Rana si è laureata in Lingua e letteratura inglese ed è diventata lei stessa guida turistica. Oggi vive a Betlemme e la sua vita quotidiana è scandita dallo stillicidio di norme e ostacoli al movimento provocati dall’occupazione. Anche per questo negli anni scorsi aveva diretto i programmi di viaggio dell’agenzia Peace by Piece Tours, con la quale ha guidato per dieci anni gruppi internazionali in tour educativi, politici e di turismo solidale in Israele e in Palestina. «Molte persone all’estero – osserva – ignorano quali siano le condizioni di vita qui, che cosa comporti l’occupazione e quanti israeliani e palestinesi siano impegnati a costruire un futuro di convivenza per i nostri due popoli».
È stato proprio durante uno di questi tour che ha conosciuto Combatants for peace e si è sentita contagiata dalle testimonianze di trasformazione personale degli attivisti. «Io stessa oggi traggo speranza, anche in questa devastazione – dice Rana – dall’amicizia e dalla comunione fra di noi. Dopo il 7 ottobre 2023 è diventato molto più difficile incontrarci, ma abbiamo moltiplicato gli incontri online per condividere la paura, l’incertezza, l’instabilità che questa situazione comporta oltre a tutto quello che già derivava dall’occupazione e siamo andati avanti anche con gli incontri online di sensibilizzazione. Un altro segno di speranza per me è che in questi 20 mesi sono aumentati i sostenitori del campo della pace e i palestinesi interessati alle nostre attività. Sono sempre di più quelli che si rendono conto che non si può andare avanti con il sangue e la distruzione. Abbiamo il pensiero dei nostri figli e nipoti, certo, ma anche per noi stessi: io spero e sono convinta che vedremo la fine di questo conflitto già durante la mia vita. Certamente deve esserci un cambio di leadership anche palestinese: non abbiamo elezioni da 16 anni e siamo consapevoli delle scarse performance dell’Autorità palestinese. Contiamo sulla pressione internazionale: ci sono molti giovani che avrebbero le competenze per assumere responsabilità politiche».
Eszter, dall’Ungheria a Israele
Come Rana Salman e moltissime altre giovani donne a capo di organizzazioni pacifiste israeliane, anche Eszter Koranyi fa parte della generazione nata negli anni Ottanta che non si rassegna a «vivere di spada» ed è decisa a fare la propria parte per traghettare il suo Paese fuori dal conflitto. Ungherese, 41 anni, ha visitato per la prima volta nel 1995 i nonni che si erano trasferiti in Israele e nel 2011, dopo lunghi soggiorni in Italia e in Olanda, ha deciso di trasferirsi in Israele dove poi ha conosciuto l’attuale marito e dove ha iniziato il suo attivismo civico per la pace.
«La maggior parte degli israeliani che scende nelle strade chiede il rilascio degli ostaggi, non ancora la fine dell’occupazione. Tuttavia – sottolinea Eszter – io vedo che sono sempre di più quelli che si rendono conto che la sproporzionata violenza che Israele usa contro i palestinesi, anche in Cisgiordania, non ci porterà la sicurezza. È evidente che l’attuale governo non rappresenta la maggior parte degli israeliani che vuole la fine della guerra e con quel poco di democrazia che ci resta spero che chi verrà dopo Netanyahu possa ascoltare di più le richieste degli israeliani».
Il senso per gli israeliani di fare memoria dell’altro 1948, quello dei palestinesi, chiosa Eszter, risiede nella convinzione «che solo la conoscenza reciproca gli uni della società degli altri possa portarci a spezzare il cerchio della violenza e ad un futuro condiviso: affermiamo una visione di pace radicata nella dignità e nella giustizia. Noi guardiamo avanti e chiediamo agli israeliani di scegliere l’umanità e uscire dalla disumanizzazione: solo questo può assicurarci vita e sicurezza».
Ultimo aggiornamento: 16/05/2025 09:17