
Figura anche il vincitore del Premio internazionale di Narrativa araba del 2024 tra i 250 ergastolani liberati da Israele in cambio degli ostaggi (vivi e morti) trattenuti nella Striscia di Gaza. Il suo romanzo Una maschera color del cielo è stato definito «uno dei dieci libri dell’anno 2024».
A una settimana dai nuovi raid che hanno provocato una strage di 104 persone nella Striscia di Gaza, fra le quali 35 bambini, sono stati restituiti alle famiglie nella serata di ieri domenica i corpi di tre soldati morti nella Striscia Asaf Hamami, Oz Daniel e l’israelo-statunitense Omer Neutra. Ad oggi sono 8 i corpi degli ostaggi che Hamas deve ancora riconsegnare alle famiglie (oltre a sei israeliani, anche un tanzaniano e un tailandese). E mentre si riaccende la preoccupazione per i detenuti palestinesi dopo che il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha vietato alla Croce Rossa Internazionale l’ingresso nei penitenziari, continua intanto a Gaza l’improbo lavoro di identificazione sulle salme dei 199 palestinesi restituiti fino ad oggi da Israele, in cambio dei resti di 15 israeliani morti in cattività, come parte dell’accordo del piano in 20 punti del presidente Trump.
La maggior parte di quel che resta dei detenuti morti nelle carceri è in un tale stato di decomposizione che soltanto un quarto di loro è stato identificato: un lavoro ancora più ingrato per i medici legali gazesi, rimasti privi di obitori e laboratori. Lo strazio delle famiglie presenti nei giorni scorsi ai funerali di 54 cadaveri sepolti in una fossa comune a Deir al-Balah – e impossibili da identificare perché sfigurati – è accresciuto dai segni di abusi ai quali sono stati sottoposti: alcuni corpi erano ancora bendati o con i polsi ammanettati dietro la schiena, altri con segni di impiccagione, altri con colpi d’arma da fuoco sparati al petto o alla testa, altri ancora con fratture al cranio o agli arti.
Due donne fra i 1.718 detenuti gazesi liberati
Analoghi resoconti di torture e abusi vengono riferiti dai sopravvissuti alle carceri israeliane rientrati nei giorni scorsi in Cisgiordania e a Gaza. Tra i 1.718 gazesi liberati dopo esser stati arrestati nella Striscia e detenuti senza capi di imputazione c’erano anche due donne. La prima, Siham Moussa Ahmed Abu Salem (70 anni), si trovava per una visita nell’ospedale Nasser a Khan Yunis il 22 gennaio 2024 quando i militari israeliani hanno fatto irruzione portandosi via tutti quelli che hanno incontrato. Più volte, ricorda l’associazione per i prigionieri palestinesi Addameer, gli attivisti e gli avvocati hanno cercato di far visita all’anziana nel carcere di Damon, ma invano. Di percosse e abusi parla anche Merevat Hammad Sarhan (37 anni, madre di quattro figli) deportata da Khan Yunis cinque mesi fa durante un blitz dell’esercito israeliano. In un’intervista all’emittente Al Jazeera ha raccontato: «Hanno fatto irruzione intorno alle 5.30 del mattino. Saranno stati una cinquantina di militari travestiti da donna» ha raccontato la donna in un’intervista ad Al Jazeera. «Continuavano ad urlare: “Dove sono gli ostaggi? Dove li avete messi?” Hanno sparato a mio marito – ricorda – uccidendolo davanti ai miei quattro figli. Poi hanno preso me e il maggiore, Mohammed che ha 13 anni, ci hanno incappucciato e portato via. In carcere mi hanno torturato con l’elettrochoc e mi hanno interrogato anche per 20 ore: ma io non sapevo nulla degli ostaggi».
La vicenda dello scrittore Bassem Khandaqji
Menzione a parte merita la liberazione dello scrittore 41enne Bassem Khandaqji, divenuto un’icona della letteratura araba dopo aver vinto nel 2024 il Premio internazionale per la narrativa araba con lo struggente romanzo Una maschera color del cielo (Edizioni E/O, 2024), definito «uno dei dieci libri dell’anno» quando, subito dopo il riconoscimento, è stato tradotto in inglese e in numerose altre lingue. La liberazione tre settimane fa di Khandaqji, subito esiliato in Egitto, ha suscitato un’onda di emozione in tutto il mondo arabo sia per la sua vicenda personale sia per la storia quasi incredibile della genesi di questo romanzo, scritto in carcere sui foglietti delle sigarette e trafugati di nascosto all’esterno dai familiari e dall’avvocato difensore Khaled Abbadi. Solo nei giorni scorsi Khandaqji ha potuto sfogliare per la prima volta le copie dei suoi due libri di poesia, dei quattro romanzi e dei saggi sulla sorte delle detenute palestinesi nelle carceri israeliane.
Una famiglia di attivisti
Chi è Bassem Khandaqji? Nato a Nablus nel 1983 in una famiglia di attivisti contro l’occupazione (la zia Nadia Khandaqji aveva aperto una libreria a Nablus subito dopo esser stata scarcerata da Israele nel 1971), all’inizio degli anni Duemila il giovane studiava Media e Giornalismo all’Università An-Najah e simpatizzava per il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (rilevante organizzazione di impronta marxista fondata negli anni Sessanta del secolo scorso e classificata come movimento terrorista da Stati Uniti e Unione europea – ndr). Bassem partecipava anche ad organizzazioni di beneficienza e aveva formato un gruppo di protezione internazionale. Secondo la stampa araba era rimasto profondamente colpito dalla morte, il 5 ottobre 2004 nella Striscia di Gaza, della 13enne Iman Al-Hams, crivellata di proiettili sparati dai militari israeliani sull’inerme e spaventata studentessa.
Poche settimane più tardi, il primo novembre, un palestinese di 16 anni si era fatto esplodere nel mercato Carmel nel centro di Tel Aviv, uccidendo tre persone e ferendone una trentina. Khandaqji venne arrestato il giorno dopo con l’accusa di aver aiutato l’attentatore prestandogli il suo tesserino di giornalista. Secondo il Consiglio dei diritti umani dell’Onu (si veda il rapporto su Israele nr. 44/2022) Khandaqji fu processato «in modo improprio» da un tribunale militare dopo esser stato arrestato senza mandato nel cuore della notte, torturato per ottenere una confessione estorta in assenza di un avvocato e detenuto in regime di isolamento a causa delle sue opinioni politiche.
Condannato, nel settembre 2005, a tre ergastoli, in questi 21 anni – e malgrado gli spostamenti da una prigione all’altra – ha conseguito una laurea in Scienze politiche presso l’Università Al-Quds, specializzandosi in studi israeliani. Con i suoi due libri di poesie, saggi e romanzi, Khandaqji ha trasformato la sua cella in una sorta di «laboratorio culturale».
In Una maschera color del cielo il potere dell’amore e dell’amicizia
Una maschera color del cielo racconta, con uno stile poetico e coinvolgente, la storia di un giovane archeologo palestinese di nome Nur (“luce” in arabo) «figlio di un campo profughi di Ramallah, e di tutti i campi profughi», che un giorno trova in un cappotto di seconda mano una carta d’identità israeliana di un coetaneo di nome Ur (“luce” in ebraico). Decide anche grazie al suo aspetto, simile a quello di un ebreo askenazita, e alla padronanza della lingua ebraica di fingersi Ur e si unisce a una spedizione archeologica in un insediamento israeliano in Cisgiordania, da dove intraprende un viaggio in Israele che non avrebbe mai potuto compiere come palestinese. Inserito in un gruppo di ebrei israeliani e con l’obiettivo di scrivere un romanzo sulla vita di Maria Maddalena basandosi sui Vangeli gnostici, incontra per la prima volta palestinesi di cittadinanza israeliana e lotta con la propria identità.
Metafora della storia intrecciata di due popoli
La possibilità di un’esistenza alternativa offerta dal documento di identità falsificato diventa così una potente metafora anche dell’intreccio dei due popoli. Nel dialogo interiore che Nur ingaggia con Ur riecheggiano in modo speculare i traumi della Shoah e Nakba, le cui narrazioni entrano in modo dirompente nelle conversazioni fra i personaggi indimenticabili che popolano il romanzo: Murad, «l’unico amico di Nur in questo mondo, da dieci anni detenuto nel buio delle carceri sioniste», Murad – scrive l’autore parlando forse anche di sé stesso – «che aveva messo a frutto anche la dolorosa esperienza della prigione, trasformandola in un percorso di conoscenza e di cultura che lo aveva condotto verso la libertà, quanto meno quella interiore» e «che aveva sconfitto l’amara alienazione con la speranza che sgorgava dall’inchiostro della sua penna».
La madre dell’amico Hajja Fatima al-Musa detta Umm Adli, «la sessantenne con il viso che resisteva al tempo e ai vicoli e che con la sua forza e resilienza rendeva benedette le giornate». La seducente e agguerrita 23enne Ayala Sharaabi, che con le sue origini mizrahi provoca «l’askenazita» sulla presunta multiculturalità dello Stato ebraico nel quale però gli askenaziti hanno da sempre un primato culturale e politico. E la coraggiosa e fiera Sama’ Ismail, «il cui viso di prima mattina è come la mattina dell’Eid, gli Eid dell’infanzia perduta»: Sama’, palestinese nata a Haifa, che vive la cittadinanza israeliana come «un’identità che la opprime» e che lotta per affermare la propria narrazione anche in una condizione di minoranza.
Un romanzo da far leggere nelle scuole
Un romanzo come questo andrebbe letto nelle scuole superiori tanto è pervaso di compassione di fronte alla disumanizzazione del nemico, di desiderio di libertà dall’oppressione e di fiducia che un futuro sia possibile grazie ai valori universali dell’amore e all’amicizia, se le generazioni più giovani sapranno intraprendere la strada che nei prossimi decenni ponga fine alla tragedia di questo conflitto.


























