
L'attacco israeliano su Doha del 9 settembre scorso, che aveva come obiettivo alti dirigenti di Hamas, ha destato un nuovo allarme nei Paesi arabi e musulmani. Il più esplicito nel mettere in guardia Israele è il presidente egiziano al-Sisi. Ecco perché.
Una vera e propria onda d’urto, che ha scosso l’intero mondo arabo. Parliamo dell’attacco condotto da Israele il 9 settembre scorso contro negoziatori di Hamas presenti in Qatar; un evento che ha rimesso in discussione alleanze, trattati e strategie regionali. Tanto che, il 15 settembre scorso, i leader arabi si sono riuniti d’urgenza a Doha, Qatar, per condannare l’azione israeliana e lanciare un segnale inequivocabile: il tempo della passività potrebbe essere finito. Al centro delle discussioni, un’ipotesi che fino a pochi mesi fa sembrava inimmaginabile: la creazione di un sistema di difesa arabo-islamico comune.
Il vertice di Doha e le sue ricadute
È ancora presto per valutare la reale ricaduta del vertice, a cui hanno partecipato a vario titolo una sessantina di delegazioni. Oltre a Qatar come Paese ospitante, erano presenti tra gli altri Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania, Marocco, Pakistan, Iraq, Turchia, Autorità nazionale palestinese e addirittura Iran. Al termine è stata siglata una dichiarazione congiunta che invita gli Stati membri a rivedere le relazioni diplomatiche ed economiche con Israele e ad avviare procedimenti legali contro di esso. Ma al di là delle parole, si è aperto uno spazio politico per un riassetto delle relazioni regionali. La minaccia, per molti Paesi arabi, non è più soltanto l’Iran: l’attacco in Qatar ha fatto emergere la percezione che Israele possa agire unilateralmente, anche contro alleati regionali, mettendo a rischio la stabilità interna degli Stati del Golfo e oltre.
Il malumore verso Trump
Non sono state risparmiate critiche agli Stati Uniti, accusati di non aver impedito, e forse persino ignorato, un attacco israeliano avvenuto sotto i radar della loro stessa base militare ad al-Udeid, in Qatar. Alcuni osservatori parlano già di una «frattura strategica» tra Washington e le monarchie del Golfo. Esagerazioni? Forse. Sta di fatto che Donald Trump, a margine dei lavori dell’Assemblea generale dell’Onu, il 23 settembre, ha dovuto confrontarsi in un incontro a porte chiuse con i capi di Stato e di governo, o alti diplomatici, di otto nazioni musulmane: Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania, Pakistan e Indonesia. Sui contenuti reali dell’incontro poco si sa. Trapela che l’inquilino della Casa Bianca avrebbe illustrato il piano della sua amministrazione per il dopoguerra nella Striscia di Gaza e sarebbe stato sollecitato a fissare dei paletti alle azioni di Israele.
L’Egitto alza la voce
In questo contesto d’incertezza, merita un discorso a parte l’Egitto. La posizione del presidente Abdel-Fattah al-Sisi si è fatta improvvisamente più dura: per la prima volta dopo un decennio, ha usato parole che sembravano scomparse dal lessico della diplomazia egiziana – definendo Israele come «nemico» – e messo in discussione gli accordi di pace conclusi a Camp David nel 1978 e firmati a Washington nel 1979. Le parole di al-Sisi riflettono un cambiamento profondo nella percezione del rischio da parte del Cairo. L’attacco al Qatar, Paese chiave nella mediazione tra Hamas e Israele, ha fatto temere che anche il territorio egiziano possa diventare teatro di operazioni israeliane.
Cosa temono al Cairo
Non si tratta di una preoccupazione astratta: l’Egitto ospita da tempo alcuni leader di Hamas proprio nella sua veste di mediatore nei negoziati. Dopo il raid su Doha, Il Cairo ha intensificato le misure di sicurezza intorno a queste figure e fatto sapere a Israele e Stati Uniti che un attacco sul suolo egiziano verrebbe considerato un atto ostile. Inevitabile, a quel punto, una risposta adeguata.
Ma l’incubo peggiore di al-Sisi riguarda il reiterato piano israeliano volto a spingere centinaia di migliaia di palestinesi fuori dalla Striscia di Gaza e dentro il Sinai. Questo scenario, che al-Sisi aveva già denunciato nel 2023, stante l’invasione di terra avviata da Israele dentro la Striscia di Gaza, è sempre più concreto. Lo spostamento forzato innescherebbe un’emergenza umanitaria devastante e farebbe da detonatore alle gravi tensioni che attraversano la regione del Sinai. C’è in più il rischio che, mescolati alla folla dei profughi, arrivino anche miliziani di Hamas e che questi possano poi sferrare attacchi contro Israele dal territorio egiziano. Le ritorsioni israeliane non si farebbero attendere.
Per una Nato araba
Per questo motivo, al vertice di Doha, al-Sisi ha rilanciato l’idea, già paventata nel 2015, di un’alleanza militare araba, una Nato regionale, capace di affrontare sfide comuni. Un sistema di difesa collettiva tra Stati arabi e musulmani, sotto la guida dell’Egitto.
Solo pochi mesi fa la proposta sarebbe risultata risibile, ma oggi potrebbe trovare terreno fertile. Il rallentamento del processo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, indebolito proprio dall’offensiva militare israeliana su Gaza, riporta Il Cairo in una posizione di centralità strategica. E gli permette di contrastare la crescente influenza d’Israele nel Golfo.
Ovviamente è improbabile che gli Stati Uniti diano un avvallo a una simile alleanza. Gli interessi americani in Medio Oriente non coincidono sempre con quelli egiziani o qatarioti. Tuttavia l’Egitto resta uno dei pochi attori ancora in grado di parlare con Israele e Hamas, anche se i margini di manovra si fanno sempre più stretti. L’attacco a Doha ha complicato la situazione anche per quanto riguarda gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas. Il rischio di ritorsioni da una parte e dall’altra aumenta. Così come la probabilità di un’escalation militare incontrollata.
Un punto di svolta
Per ora, l’Egitto cerca di contenere le minacce dispiegando truppe nel Sinai, raffreddando la cooperazione militare con Israele prevista dal trattato di pace tra i due Paesi, e cercando di rilanciare il proprio piano per il «giorno dopo» a Gaza. Ma senza un cambiamento di rotta nella politica degli attacchi preventivi da parte israeliana, un cessate il fuoco a Gaza e un sostegno internazionale più attivo, il rischio di un coinvolgimento diretto dell’Egitto cresce.
L’attacco israeliano a Doha ha segnato un punto di svolta. Ha reso evidente una volta di più che la crisi tra Israele e Hamas non è una questione confinata alla Striscia di Gaza, ma è un detonatore capace d’infiammare l’intero Medio Oriente. E ha riportato in primo piano una verità rimossa per anni: per garantire la sicurezza regionale, gli Stati arabi potrebbero dover contare solo su sé stessi.

























