
L’Olocausto come narrazione egemonica del passato, l’identificazione dei palestinesi con i nazisti, il patriottismo come sacrificio della vita: secondo l’accademica israeliana l’attuale sistema scolastico israeliano alimenta il conflitto perenne.
«Per cambiare questo paese dovremmo cambiare la scuola: dovremmo farla finita di porre sulle spalle dei nostri figli, fin dall’asilo, il peso dell’Olocausto come la narrazione che spiega il passato, il presente e il futuro e come un evento che potrebbe essere perpetrato nuovamente in ogni momento contro gli ebrei», dice in un colloquio con Terrasanta.net la professoressa Nurit Peled Elhanan, docente emerita di Lingua e pedagogia dell’Università ebraica di Gerusalemme.
«È evidente che gli orrori ai quali assistiamo oggi a Gaza sono il frutto di quello che abbiamo seminato per anni nelle scuole israeliane», rimarca l’accademica, una delle più agguerrite critiche della lotta ingaggiata dalla destra ebraica per cancellare le tracce della storia palestinese dai testi scolastici. Parole che pesano come macigni tanto più che lei stessa e la sua famiglia sono state colpite dal terrorismo: nel 1997 sua figlia Smadar, che aveva 13 anni, rimase vittima di un attacco suicida nella zona occidentale di Gerusalemme.
«La Shoah al centro dell’identità d’Israele»
Classe 1949, filologa e pedagogista, Nurit Peled-Elhanan ha acquisito una crescente notorietà dopo aver vinto nel 2001 il premio Sacharov sulla libertà di pensiero per le sue denunce sul razzismo della cultura, sulla demonizzazione dei palestinesi e su come i loro villaggi siano stati cancellati dalle mappe (le sue prese di posizione sono confluite nel volume La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione, Ediz. Abele, 2015). Due anni fa ha pubblicato un nuovo libro – assai più noto all’estero che in patria, dove è stato quasi ignorato dai media in lingua ebraica –: Holocaust Education and the Semiotics of Othering in Israeli Schoolbooks (Common Ground Paper Network, 2023). Il saggio solleva il velo su un altro tabù dello Stato ebraico, ovvero il modo in cui la memoria dell’Olocausto viene trasmessa di generazione in generazione con un’ossessività, un’intensità e una tenacia che ha fatto parlare di «olocaustizzazione» della memoria collettiva di Israele.

La professoressa Nurit Peled-Elhanan.
«Il nostro sistema scolastico – spiega l’intellettuale – è concepito per formare dei buoni soldati, e questo passa dall’indottrinare i nostri alunni fin dalla scuola materna con la memoria dell’Olocausto. Fino a quando inculcheremo attraverso la scuola questa idea del patriottismo che deve arrivare fino al sacrificio della vita, ad imparare ad uccidere ed essere uccisi, noi non usciremo dal conflitto. All’estero si parla molto di che cosa resti del sionismo dopo oltre un anno e mezzo di guerra a Gaza. Qui in Israele nessuno parla del sionismo: l’Olocausto ha preso il posto dell’ideologia sionista ed è diventato un elemento centrale dell’identità ebraica israeliana».
La studiosa ricostruisce come sia stato un processo graduale ma coerente fin dalla fondazione dello Stato di Israele. «Tra il 1952 con l’inizio dei negoziati sulle riparazioni di guerra e il 1965, quando Israele allacciò relazioni diplomatiche con la Germania, emerse nella società israeliana il bisogno di individuare un nuovo potenziale sterminatore ed esso venne individuato negli arabi. E questo fu il motivo per perseguitarli, espellerli, spingerli all’emigrazione. Il primo a codificare questa identificazione fu il premier David Ben Gurion, quando disse che i risarcimenti di guerra ottenuti dalla Germania servivano a contrastare gli arabi, che da allora sono i nuovi nazisti. Ci fu un momento, dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973, in cui migliaia di giovani emigrarono e dissero: “Basta, non ne vale la pena”. E la brillante idea che ebbero i governi successivi per contrastare l’emigrazione fu quella di rinforzare l’insegnamento dell’Olocausto nelle scuole e di spaventarli così tanto su quello che sarebbe successo all’estero di spingerli a morire nel Paese: l’eterofobia che oggi affligge così tanti israeliani è nata così, alla fine degli anni Ottanta. Negli ultimi vent’anni è diventato un mantra: “L’Olocausto è dietro l’angolo, può accadere di nuovo, dobbiamo prevenirlo, i nuovi nazisti sono gli arabi”. E anche adesso si parla del 7 ottobre come un nuovo Olocausto, e dei gazesi come di nazisti. Personalmente ritengo che chi utilizza questa terminologia non sappia niente della Shoah, ma il discorso pubblico avviene in questi termini».
Lo slogan «Mai più!» declinato in due interpretazioni
Le implicazioni, rimarca, sono ben visibili oggi a Gaza. «È evidente il nesso fra il modo in cui insegniamo l’Olocausto e il modo in cui trattiamo i palestinesi… È come se nella devastazione che ha raso al suolo Gaza i nostri soldati volessero dire loro: Non potete sterminarci come volevate fare 85 anni fa. Ma a chi si sta parlando? Anziché rivolgerci ai nazisti tedeschi stiamo parlando agli arabi. L’analisi dei nostri testi scolastici mostra che i nostri bambini vengono esposti fin dalla scuola materna alla “pornografia del male” con le foto dei bambini nudi ad Auschwitz, viene loro inculcata un’ammirazione acritica nei confronti dell’esercito affinché loro stessi diventino buoni soldati: alcuni parlano di “militarismo cognitivo” per indicare l’adesione totale della società civile alla mentalità dell’esercito. Così i civili sono militari in riserva, le istituzioni sono costantemente in preallerta per un eventuale conflitto, la guerra è l’orizzonte di qualsiasi ragionamento e i problemi sono considerati sotto gli aspetti della sicurezza: gli israeliani devono “vivere di spada”. Lo storico Yehuda Elkana ha spiegato come due nazioni siano emerse dalle ceneri di Auschwitz: una minoranza che afferma “questo non deve avvenire mai più”, ed una maggioranza impaurita che dice “questo non deve avvenire mai più agli ebrei”. E noi ci troviamo oggi in queste due interpretazioni dello slogan del post-Shoah con il “Mai più per noi!” ed il “Mai più per nessuno!”».
«Non vedo differenze oggi tra destra e sinistra»
Nel suo saggio del 2023, premiato da un’associazione di editori accademici anglosassoni, la studiosa indica la necessità di promuovere una memoria multiculturale con un piano di studi alternativo arabo-ebraico, fatto di più voci e policentrico, capace di riferire i resoconti non detti che la versione didascalica della storia cerca di escludere. «Io penso che invece di traumatizzare i bambini e cercare vendetta – afferma – dovremmo incoraggiare la discussione e valorizzare la diversità e le sfumature. Ma purtroppo non credo che possa esserci un cambiamento a breve termine nelle politiche dell’istruzione, chiunque verrà dopo Netanyahu: finché non collaborano con i cittadini e i partiti arabi; finché non si oppongono a quello che sta avvenendo a Gaza; finché non abbandonano questo approccio militare alla questione palestinese potranno magari fare alcune cose diversamente, ma non cambierà niente senza un cambio di paradigma. Per questo non vedo differenza fra destra e sinistra: non vedo in questo momento una visione diversa sui palestinesi e neppure un’idea diversa di società israeliana, pur ritenendo che dovremmo cambiare tutto e dovremmo farlo adesso. Nelle manifestazioni, le bandiere israeliane vengono sventolate contro la distruzione della democrazia israeliana che ha preso piede con l’attuale governo, ma non c’è una vera protesta contro l’occupazione e contro la guerra a Gaza. Le prime prese di posizioni dei riservisti sono un piccolo passo avanti, ma dovremmo essere molti di più».
«È l’insegnamento il mio campo d’azione»
Ventotto anni fa Nurit Peled-Elhanan rifiutò la presenza di qualsiasi esponente delle autorità israeliane ai funerali della figlia Smadar uccisa da un attentatore palestinese e dichiarò alle esequie: «Mia figlia è stata uccisa solo perché israeliana da un giovane oppresso ed esasperato al punto da suicidarsi e uccidere solo perché palestinese. Entrambi sono vittime dell’occupazione israeliana della Palestina. Il loro sangue si è mescolato sulle pietre di Gerusalemme, che da sempre sono indifferenti al sangue». La storia di come il marito Rami divenne uno dei fondatori del Forum di famiglie Parents Circle è narrata nel magnifico romanzo-saggio Aperoigon di Colum McCann. Ma la Nurit che vi viene ritratta – ci tiene a precisare – è stata ricostruita sulla base di riferimenti online perché non ho voluto esser intervistata. «Non amo parlare della mia vita privata – dice – e mi considero troppo radicale per appartenere a qualsiasi associazione. Mio marito e i miei tre figli e nipoti sono tutti attivisti per la pace, il mio spazio di azione è l’insegnamento e la mia soddisfazione più grande resta quella di aver formato giovani ricercatori che hanno interiorizzato le analisi critiche dei curricula scolastici e delle politiche di insegnamento della Shoah. In Israele abbiamo sempre goduto di un’amplissima libertà accademica, ciascuno può dire e insegnare quel che vuole e formare delle oasi nelle quali circola lo spirito critico, l’apertura e la presa in considerazione del punto di vista degli altri. Anch’io ho subito pressioni e minacce per la mia presa di posizione, ma quelli che realmente rischiano sanzioni sono gli arabi, di certo non siamo noi ebrei israeliani».