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Covid-19 in Israele, le ansie dei prigionieri palestinesi

Anna Clementi
28 aprile 2020
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Covid-19 in Israele, le ansie dei prigionieri palestinesi

Le associazioni dei prigionieri palestinesi in Israele e i loro familiari denunciano nuove violazioni ai diritti fondamentali dei detenuti durante l'epidemia del coronavirus.


«L’abbiamo visto per l’ultima volta a gennaio. Da allora non abbiamo più sue notizie. Non sappiamo come stia né quando potremo tornare a trovarlo». Non passa giorno senza che il pensiero di Hiba vada al fratello Salah, incarcerato da Israele nel 2001 quando aveva 23 anni e condannato all’ergastolo. «É il ventesimo mese di Ramadan che passiamo senza di lui e quest’anno, più che mai, siamo preoccupati per il suo stato di salute. Le autorità israeliane non stanno garantendo alcuna forma di prevenzione contro la diffusione del coronavirus all’interno delle prigioni. Non ci resta che aspettare, sperare e pregare».

La denuncia di Hiba, come quella di tante altre famiglie che da inizio marzo non hanno più contatti con i loro cari in carcere, fanno da eco a un appello diffuso il 17 aprile scorso da 45 organizzazioni della società civile palestinese e internazionale in occasione della giornata di solidarietà con i prigionieri palestinesi. Con la diffusione del Covid-19 nel Paese (che da inizio aprile ha subito un’impennata arrivando a quasi 15mila contagi e 193 decessi), l’amministrazione carceraria israeliana non ha fatto passi avanti per liberare i prigionieri palestinesi o per limitare il contagio all’interno degli istituti di pena. Al contrario, nonostante la pandemia, sono continuate le incursioni e gli arresti arbitrari in Cisgiordania tanto che nel solo mese di marzo sono stati arrestati 357 palestinesi, tra cui 48 minorenni e 4 donne.

In 5mila dietro le sbarre

A destare particolare preoccupazione sono le condizioni dei più vulnerabili, i minori, i malati cronici e chi si trova in detenzione amministrativa, senza processo né accuse ufficiali. Secondo i dati dell’associazione Addameer per il sostegno ai prigionieri e la difesa dei diritti umani, ad oggi nelle carceri israeliane ci sono cinquemila prigionieri palestinesi, tra cui 432 in detenzione amministrativa e 183 minori, costretti a sopportare aspre condizioni di detenzione, che includono torture e maltrattamenti sistematici, insufficiente assistenza medica e accesso al cibo, mancanza di adeguato accesso ai prodotti sanitari, disinfettanti inclusi, e in alcuni casi, totale divieto di ricevere visite da parte dei familiari. Spesso tali violazioni possono essere letali, come nel caso di Nour al-Barghouti, detenuto 23enne del villaggio di Aboud, morto nelle prime ore di mercoledì 22 aprile nella prigione israeliana di Ketziot nel Neghev, dopo essersi sentito male in bagno. Secondo l’Associazione prigionieri palestinesi (Palestinian Prisoners’ Society – Pps) è stato il ritardo nei soccorsi ad aver provocato il decesso del giovane. Come in altri casi, la famiglia potrà riavere la salma solo tra quattro anni, quando terminerà il periodo di pena che il giovane avrebbe dovuto scontare.

Da quando è iniziata la pandemia, denunciano le associazioni della società civile e gli stessi detenuti, il governo israeliano ha imposto nuove restrizioni all’interno dei centri detentivi: sono state vietate le visite di familiari e avvocati complicando così la valutazione delle condizioni di salute all’interno delle carceri e sono stati rinviati tutti i processi anche di chi si trovava in detenzione preventiva, rendendo ancora più gravi le violazioni israeliane dei diritti palestinesi alla libertà, alla sicurezza e a un processo equo e rapido. Inoltre l’amministrazione penitenziaria continua a rifiutarsi di installare telefoni fissi che permettano ai prigionieri di comunicare con i propri familiari e avvocati.

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