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Giulio Regeni e il volto oscuro dell’Egitto

Chiara Cruciati
23 gennaio 2017
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Giulio Regeni e il volto oscuro dell’Egitto
Giulio Regeni, scomparso nel nulla al Cairo il 25 gennaio 2016 e ritrovato cadavere pochi giorni dopo, il 3 febbraio. Aveva 28 anni.

Il 25 gennaio 2016 al Cairo, spariva nel nulla il ricercatore italiano Giulio Regeni. Pochi giorni dopo, il 3 febbraio, il suo cadavere veniva ritrovato martoriato dalle torture. Sorte simile a quella di molti egiziani.


Un anno dalla scomparsa al Cairo di Giulio Regeni, sei dallo scoppio della rivoluzione di Piazza Tahrir: il 25 gennaio resta impresso nelle menti degli egiziani come in quella dell’opinione pubblica italiana. Esattamente un anno fa il giovane ricercatore italiano, in Egitto per uno studio sui sindacati indipendenti, spariva dopo essere uscito di casa nel centro della capitale.

Le storie di Giulio e della rivoluzione si intrecciano. Prima con il tema che appassionava il ricercatore di origini friulane: il ruolo dei lavoratori nella rivolta che depose il presidente Hosni Mubarak. Poi con la data della sua sparizione: il 25 gennaio 2016 la città del Cairo era blindata, con strade vuote, ma un ingente dispiegamento di polizia ed esercito. L’obiettivo del governo era chiaro: impedire qualsiasi forma di protesta o commemorazione.

Perché al Cairo dal 2011 è cambiato ben poco. Dopo aver sacrificato migliaia di vite, gli egiziani hanno visto soffocare la rivoluzione e lo spirito democratico che la mosse. I movimenti nati in quel periodo si sono ripiegati su stessi, ostacolati da una macchina repressiva ancora più pesante di quella forgiata nell’era Mubarak. La speranza non manca: una simile spinta non si esaurisce in pochi anni, quelli rivoluzionari sono processi storici lunghi che, una volta avviati, vivono di ripiegamenti e salti in avanti.

Ne sono convinti in molti: piazza Tahrir non è morta. Ma non viene neppure aiutata da fuori. Chi allora celebrò le ambizioni democratiche dei popoli arabi, oggi sostiene i leader autoritari che le hanno fatte (temporaneamente) fallire. La morte brutale di Giulio, trovato il 3 febbraio 2016 in un fosso lungo la superstrada che collega Il Cairo ad Alessandria, con i segni inconfutabili di indicibili torture, non ha modificato equilibri di potere e reti di alleanze. Per Roma Abdel Fattah el-Sisi resta alleato indispensabile nella regione (per il ruolo giocato in Libia, la questione migranti, il consistente scambio commerciale che fa dell’Italia il primo partner europeo del Cairo) e alle iniziali minacce diplomatiche non hanno fatto seguito troppe pressioni, né dall’Italia né, tanto meno, dall’Europa.

Eppure appare palese che su Regeni si è abbattuta quella violenza brutale a cui spesso ricorrono servizi segreti e polizia. Così Giulio è stato abbracciato da molti egiziani come uno di loro, perché è morto come uno di loro.

A fare il resoconto dell’anno appena concluso è stato Human Rights Watch: in un rapporto pubblicato giovedì 12 gennaio, l’associazione internazionale parla di «consolidamento e inasprimento della repressione». Sparizioni forzate, omicidi extragiudiziali, giornalisti in prigione (29, che fanno dell’Egitto il terzo paese al mondo per reporter dietro le sbarre, dopo Cina e Turchia), torture, chiusura di organizzazioni locali, congelamento dei fondi di ong e attivisti (l’ultimo risalente al 12 gennaio e che ha colpito Mozn Hassan e la sua organizzazione Nazra per gli studi femministi), campagne di arresti contro gli oppositori, che siano membri dei Fratelli Musulmani, semplici cittadini o attivisti di diversa estrazione politica.

Si restringe così lo spazio di movimento della società civile, di associazioni storiche che da decenni monitorano le violazioni governative. Come la Commissione egiziana per i diritti e le libertà (che fornisce assistenza legale alla famiglia Regeni), la quale ha calcolato almeno 912 vittime di sparizione forzata tra l’agosto 2015 e l’agosto 2016; o il Centro Nadeem, dagli anni Novanta impegnato a tutelare le vittime di torture, che ha registrato almeno 433 casi in prigioni e caserme nei primi 10 mesi del 2016.

È questo l’Egitto del generale el-Sisi, un mix di repressione istituzionalizzata, instabilità e crisi economica che sta schiacciando la classe medio-bassa. Rare e poco partecipate, le manifestazioni di protesta esplodono comunque, come reazione a una situazione di miseria. E fanno paura al regime: se in molti attribuiscono ad una generale rassegnazione le ragioni della scarsa partecipazione politica, tanti altri sono convinti che quel seme non è mai morto e riesploderà nel prossimo futuro.

A farlo rigermogliare sarà lo stesso slogan che mosse gli egiziani sei anni fa: «Pane e libertà!». La situazione economica del Paese è drammatica: il tasso di inflazione a dicembre ha toccato quota 23,3 per cento, superando ampiamente quello già grave di novembre (19,4 per cento). I prezzi dei beni di prima necessità – farina, zucchero, riso, medicinali, latte artificiale – sono saliti alle stelle. E molti prodotti alimentari sono quasi introvabili. Aumenta drasticamente anche il tasso di povertà, con un quarto degli egiziani che oggi vive sotto la soglia minima. A monte un elevato tasso di disoccupazione (28 per cento), la svalutazione della sterlina, il crollo delle esportazioni e la crisi del settore turistico.

E poi il taglio dei sussidi pubblici, l’introduzione dell’Iva e la riduzione del numero di dipendenti pubblici, tutte richieste specifiche di Banca Mondiale e Fondo Monetario che hanno imposto dure misure di austerity per concedere i loro prestiti (3 miliardi di dollari la prima, 12 il secondo). El-Sisi lo va ripetendo da tempo: che gli egiziani stringano i denti per almeno sei mesi. Ma a mancare all’orizzonte sono piani di investimento realistici, volti all’incremento dell’occupazione. Al contrario, buona parte del denaro in entrata va a coprire progetti faraonici, giudicati pressoché inutili, come l’ampliamento del Canale di Suez, nuove linee autostradali e l’allargamento dei porti navali.

Ma gli egiziani, ai microfoni dalla Reuters, sanno già cosa rispondere al presidente: «Parla di sei mesi. Cosa dovremmo fare nei prossimi sei mesi, mangiarci a vicenda?».

Nota di redazione:

Clicca qui per visualizzare un video di Giulio, girato segretamente al Cairo pochi giorni prima della sua morte, da Mohammed Abdallah, il leader sindacalista degli ambulanti che ha ammesso di aver segnalato il giovane italiano come spia ai servizi di sicurezza egiziani. Nella conversazione in arabo il sindacalista chiede a Regeni un sostegno economico per la moglie gravemente ammalata. Giulio gli spiega che i fondi di cui può disporre sono destinati unicamente al progetto di ricerca di cui si sta occupando. Forse – soggiunge – il sindacato può provare a partecipare a un bando internazionale per ottenere fondi finalizzati a cofinanziare le sue attività.

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