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La botte di ferro del presidente Al Sisi

Fulvio Scaglione
23 novembre 2020
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Nonostante le cattive prove di sé che sta dando sul versante dei diritti umani, il regime egiziano non subisce pressioni e censure dai governi occidentali. Le ragioni sono molte e l'economia conta parecchio. Vediamo il perché.


La vicenda di Giulio Regeni, il caso Patrick Zaky (il giovane copto, studente all’università di Bologna, arrestato al suo rientro al Cairo nel febbraio scorso per dei post su Facebook che costituirebbero propaganda sovversiva, e da allora in stato di custodia cautelare in carcere rinnovata dai tribunali ogni 45 giorni – ndr), i 60 mila prigionieri politici sempre in attesa di processo, la politica aggressiva in Libia a favore del generale Khalifa Haftar e dunque contro la comunità internazionale che riconosce Fayez al Sarraj… C’è da chiedersi perché l’Egitto ancora non sia su una di quelle liste di «Stati canaglia» da sanzionare che tanto appassionano l’Occidente democratico e liberale.

Alcune ragioni sono evidenti. La posizione strategica, tra Africa e Mediterraneo, dell’Egitto. L’atteggiamento conciliatorio (e per quanto riguarda il controllo del Sinai, di vera alleanza) nei confronti di Israele. Il ruolo di baluardo anti-terrorismo islamista che il presidente Abdel Fattah Al-Sisi fa abilmente valere. La collaborazione alle strategie di contenimento dell’immigrazione irregolare che muove verso l’Europa. Più raramente si sottolinea la strategia economica dell’attuale regime egiziano, che invece pare fatta apposta per spingere il maggior numero possibile di Paesi a condividere, o a far passare sotto silenzio, anche le più criticabili scelte politiche del Cairo.

In ordine di importanza finanziaria, al primo posto viene la strategia del debito. Il debito estero forma ormai il 32 per cento dell’intero debito egiziano e corrisponde alla somma di 111,3 miliardi di dollari. Tutto «merito» degli alti tassi d’interesse (13 per cento nel luglio di quest’anno) che l’Egitto offre al cosiddetto hot money, cioè gli investimenti a breve termine che lo riforniscono di denaro contante in valuta forte. Per dare un’idea della corsa a prestare soldi all’Egitto: nel 2016 l’investimento estero nei bond egiziani a breve termine era pari a 60 milioni di dollari, nel 2019 a 20 miliardi.

Secondo fattore: il commercio delle armi. Da quando si è insediato, Al-Sisi ha cominciato a comprare armi in giro per il mondo, triplicando le somme spese prima del 2014. Tanto che nel periodo 2014-2019 l’Egitto è stato il terzo importatore di armi al mondo. Ne hanno beneficiato soprattutto la Francia (che esaudisce il 35 per cento delle richieste egiziane) ma anche i soliti Russia e Stati Uniti, oltre all’Italia che nel 2019 ha triplicato la sua vendita di armi all’Egitto.

Terzo fattore: gas e petrolio. Oggi l’Egitto è il primo Paese dell’Africa per gli investimenti diretti dall’estero (9 miliardi di dollari nel 2019), che vanno in gran parte proprio al settore energetico. Nel 2019 il governo egiziano ha reso i termini di sfruttamento dei giacimenti più favorevoli alle compagnie straniere e i risultati non sono mancati. Nel giacimento offshore di gas chiamato Zhor, la sola italiana Eni (che detiene il 50 per cento delle quote, con partecipazioni inferiori dell’inglese British Petroleum e della russa Rosneft) ha finora investito 13 miliardi di dollari.

Questi tre pilastri della politica economica egiziana hanno due chiari effetti collaterali: rafforzano l’attuale regime e legano gli altri Paesi alla permanenza di Al-Sisi al potere. La politica degli alti interessi per i prestiti a breve termine conviene agli investitori stranieri ma nello stesso tempo consente alla casta militare di continuare ad arricchirsi, usando quei prestiti per la politica dei mega-progetti infrastrutturali (il raddoppio del canale di Suez, per esempio) che impiegano soprattutto le aziende gestite dai militari stessi. La vendita di armi mette l’Egitto in stretta connessione con le politiche di difesa dei Paesi fornitori, oltre che fornire alle forze di sicurezza egiziane gli strumenti di controllo del dissenso. E i forti investimenti esteri nel settore energetico, che come molti altri settori strategici dell’economia egiziana è appannaggio dei militari, certo non spingono i rispettivi governi a premere per un cambiamento dello status quo al Cairo.


 

Perché Babylon

Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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