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Spunteranno nuove case israeliane in Cisgiordania

Fulvio Scaglione
15 ottobre 2020
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Firmando gli Accordi di Abramo, gli Emirati Arabi Uniti si rallegravano di aver ottenuto da Israele il congelamento di annessioni di parti della Cisgiordania. Gli insediamenti, però, continuano a espandersi.


Torniamo su Israele non per accanimento, ma per quel minimo di onestà che si deve all’informazione. Lo Stato ebraico ha da poco siglato i cosiddetti Accordi di Abramo per normalizzare i rapporti con Emirati Arabi Uniti e Bahrein. È l’inizio di un processo importante. Non a caso il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, dice che in lista d’attesa per firmare accordi simili ci sono «cinque o sei altri Paesi», con Marocco, Oman e Sudan in prima fila. Alla base di quegli Accordi, però, c’era l’impegno di Israele a non procedere con l’annessione del 30 per cento della Cisgiordania occupata con le conquiste militari del 1967 (guerra dei Sei giorni) e con gli eventi successivi. Annessione peraltro prevista dal Piano di pace presentato da Trump in gennaio e poi dagli accordi politici che hanno fatto nascere il governo Netanyahu-Gantz.

Sono passati pochi giorni e già si scopre che i pessimisti avevano ragione. La West Bank Civil Administration, organismo dello Stato israeliano, ha approvato, il 14 ottobre, la costruzione di 2.166 nuove unità abitative in Cisgiordania. Il che fa ulteriormente crescere gli insediamenti che per il diritto e per la stragrande maggioranza delle istituzioni internazionali sono illegali. Si tratta, com’è ovvio, di un’annessione mascherata, giusto quel tanto che permette a Israele, agli Emirati, al Bahrein e agli Usa di far finta di rispettare i patti. Per Israele e gli Usa niente di nuovo. Da decenni la politica di espansione territoriale è l’architrave della strategia israeliana e il primo ministro Benjamin Netanyahu, com’è già successo con la gestione del Covid-19, lega la propria sopravvivenza politica alle richieste della destra ultraortodossa. Gli americani hanno sempre più o meno fatto finta di non vedere. Per i Paesi arabi, e musulmani in generale, che da un buon rapporto con Israele e con gli Stati Uniti possono ricavare notevoli vantaggi sotto ogni punto di vista, è invece il definitivo abbandono della causa palestinese. La Palestina non definisce più le loro politiche e, anzi, è ormai un fastidio di cui liberarsi il più in fretta possibile.

È il mondo nuovo che avanza. Ed era inevitabile che, dopo decenni di stasi e di morti inutili, fosse il più forte a cambiare le carte in tavola. L’unica cosa che non si capisce è però quella fondamentale: che cosa dovrebbero fare e dove dovrebbero andare i palestinesi, visto che non avranno uno Stato, saranno spogliati di quel poco di terra dove ancora sopravvivono e resteranno privi di qualunque forma di autodeterminazione. Davvero crediamo che tre milioni di palestinesi della Cisgiordania saranno felici di prendere ordini da 450 mila coloni israeliani?


 

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Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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