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Fatima e il coraggio di essere fotoreporter a Gaza

Manuela Borraccino
16 novembre 2021
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Fatima e il coraggio di essere fotoreporter a Gaza
Un giovane di Gaza fotografato da Fatima Shbair.

La guerra, il lavoro da cronista, i sogni per il futuro. A colloquio con la 23enne Fatima Shbair, pluripremiata fotoreporter della Striscia di Gaza, che dice: «Vorrei incoraggiare altre donne a seguire le loro ambizioni»


«Se ho avuto paura? Certo che sì, siamo esseri umani. Ma lascia che ti dica che in quei momenti, quando bombe e morte ti circondano, la paura è l’ultima cosa a cui pensi. Perché sai di trovarti davanti ad un evento urgente e irripetibile e che, se non lo documenti, sarà bruciato per sempre e nessuno saprà cosa è accaduto: perciò ti fai coraggio e continui a scattare». Fatima al-Zahra’a Mohammed Shbair, 23 anni, parla così a Terrasanta.net dalla Striscia di Gaza. Commenta il Premio Coraggio nel Fotogiornalismoin memoria dell’inviata dell’Associated Press Anja Niedringhaus, uccisa nel 2014 in Afghanistan –, del quale è stata insignita nelle scorse settimane in Germania per uno dei fotoreportage sulla guerra del maggio scorso pubblicati dall’agenzia internazionale Getty Images. Per la stessa agenzia aveva vinto un mese prima, con la serie Vita sotto assedio, il premio Rémi Ochlik in Francia.

«Quando ho deciso di diventare fotoreporter – afferma – ho posto sul tappeto tutte le eventualità negative e le ho accettate: i fatti e le storie sul terreno valgono un minimo di sacrificio. Mi trovo spesso a pensare alla realtà come a una battaglia, nella quale noi siamo i soldati e la macchina fotografica è la nostra arma. Finché la battaglia continua anche noi dobbiamo continuare a fare riprese».

«Autodidatta, da due anni lavoro per Getty»

Fatima racconta di aver iniziato a documentare quello che avveniva intorno a lei a 16 anni, spinta dal contesto di guerriglia con Israele a Gaza. «Ho cominciato da autodidatta: qui nella Striscia non ci sono scuole di fotogiornalismo. Mi attraevano la cronaca e le storie delle persone: quando vivi in una zona di guerra senti di avere un messaggio di profonda ingiustizia da far arrivare al resto del mondo. Ho lavorato duro per quattro anni cercando di imparare sul campo tutto quel che potevo». Nel 2017, mentre stava per laurearsi in Economia e Commercio al Cairo, la madre le ha regalato una macchina professionale: «Mi sembrava di toccare il cielo con un dito, mia madre è la mia più grande sponsor. Ho iniziato subito a fare foto, e due anni fa ho iniziato a lavorare per l’agenzia Getty».

«Così sono sopravvissuta ai missili»

Proprio i suoi capiredattori della Getty Images l’hanno candidata quest’anno ai maggiori premi internazionali per le potenti foto sui massacri avvenuti a maggio [qui il link alle foto. Attenzione, immagini crude!]. «L’ultima guerra è stata l’esperienza più dura: è stata la prima guerra che ho coperto ininterrottamente per 11 giorni, 24 ore su 24, con la paura che succedesse qualcosa alla mia famiglia. Mi sono trovata in pericolo, certo, e mi sorprendo ancora oggi per come sono sopravvissuta. Mi trovavo a Beit Hanoun – racconta – nel nord della Striscia, che quel giorno era sottoposta a un bombardamento pesante. Il taxi che ci ha accompagnato sul posto se ne è andato subito per paura dei missili. Quando abbiamo finito con le riprese, la città era completamente priva di qualsiasi mezzo di trasporto: i miei due colleghi ed io non potevamo far altro che tornare a casa a piedi. Davanti a noi c’era un’unica strada, la più pericolosa della città. Gli aerei volavano basso e ci vedevano chiaramente. Sapevo che avrebbero potuto colpirci in qualsiasi momento: la strada era lunga e non avevamo scampo. Abbiamo camminato sotto il sole di mezzogiorno per almeno un’ora. E nel momento in cui un missile è piombato davanti a noi ho pensato che fosse impossibile sopravvivere, in quel momento sono passati dei colleghi che stavano lasciando la città in macchina e siamo fuggiti via con loro: incredibile!».

«Per le donne è dura, ma val la pena lottare»

Fatima non si è mai arresa di fronte alle difficoltà aggiuntive per una donna nel voler intraprendere questo mestiere in una società maschilista e patriarcale com’è quella di Gaza. «Non è facile essere una fotoreporter in un posto come Gaza, ma non è neanche impossibile. Molti non accettano l’idea che tu, donna, possa scendere in strada con una macchina fotografica; non credono nella nostra capacità di superare le difficoltà come gli uomini. Sarcasmo, battute e insulti sono le prime cose che sento quando sono in strada per scattare delle foto o girare delle riprese, specialmente in tempi di guerra ed eventi difficili. A ciò si aggiunge il fatto che mi viene impedito di fotografare in molti posti – come ad esempio nelle moschee o in alcuni raduni –, con la scusa che sono riservati agli uomini. A Gaza le possibilità per le donne di lavorare in questo ambito sono davvero poche, perché si ritiene che gli uomini possano adattarsi e andar bene in qualsiasi circostanza. Tutti questi fattori aumentano la paura delle donne per questa professione. È questa la ragione per cui siamo solo quattro o cinque fotogiornaliste a Gaza, in confronto alle centinaia di fotografi maschi. La lotta che porto avanti – rimarca Fatima – è per ottenere dispositivi di protezione, al pari degli uomini, come il giubbotto antiproiettile, l’elmetto e la maschera protettiva… La maggior parte delle associazioni dei media non mi considerano una giornalista e così…».

Donne ai tavolini di un bar, in un altro scatto di Fatima Shbair.

Già vincitrice nel 2017 del premio di National Geographic Abu Dhabi per un servizio sulla Notte dell’Henné, rito tradizionale nella notte dell’addio al nubilato, Fatima rimarca come in alcune occasioni essere una donna fotogiornalista sia un vantaggio: «Se le donne iniziano a conoscerti e a fidarsi di te, si sentono a loro agio nel raccontarti le loro storie e questo ti mette nelle condizioni di esplorare le loro vite e raccontarle nel modo giusto. È un dato di fatto comunque che le difficoltà per una donna in questo settore a Gaza restano molto più numerose dei vantaggi».

«L’obiettivo può cambiare la vita dei popoli»

Non stupisce che questa giovane donna ambisca ad ispirare altre coetanee a lavorare, ma soprattutto a sortire un impatto sociale col suo lavoro. «Io spero che col tempo la gente accetti le fotoreporter donne a Gaza come in ogni parte del mondo. Ho lavorato duro per imparare in questo ambito e per diventare un modello per altre donne, quindi spero che altre abbiano il coraggio di cimentarsi e di andare avanti. Un altro mio sogno – chiosa – è quello di essere una voce per le persone più vulnerabili, far conoscere le loro istanze e far conoscere le loro storie: credo nella macchina fotografica come strumento che può cambiare la vita di interi popoli. Sono arrivata a conoscere la fotografia attraverso le persone e per le persone: lavorerò sempre per loro e per il cambiamento».

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