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Alle porte di Betlemme Daoud coltiva speranza

Cécile Lemoine
22 settembre 2021
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Alle porte di Betlemme Daoud coltiva speranza
Nonostante le difficoltà, il palestinese Daoud Nassar presidia, con la famiglia, la sua terra per impedire che sia confiscata dagli israeliani. (foto C. Lemoine)

Da trent'anni il palestinese Daoud Nassar lotta per mantenere la proprietà della sua fattoria, la Tenda delle Nazioni, sulle alture di Betlemme cinte di insediamenti ebraici. Una resistenza nonviolenta, ispirata dalla fede.


Se la speranza avesse una forma, sarebbe quella delle tenere giovani foglie verdi che crescono sui rami degli ulivi carbonizzati della fattoria della famiglia Nassar. Del grande frutteto a terrazzamenti restano solo pochi alberi, con le foglie bruciate, e la terra nera come il carbone. Lo scorso maggio, questa famiglia cristiana palestinese ha visto andare in fumo più di mille dei suoi fichi, mandorli, viti e ulivi in un enorme incendio doloso. Appiccato da chi?

Daoud Nassar e sua moglie Jihane, che gestiscono l’azienda agricola di famiglia, un’idea se la sono fatta: «Palestinesi del villaggio qui sotto – dicono –, probabilmente pagati dallo Stato di Israele per cercare di farci abbandonare la nostra terra». Un duro colpo per la coppia, che vede in questo gesto un’impennata delle pressioni e delle ingiustizie subite da 30 anni, solitamente da parte dei coloni israeliani.

La speranza attiva

Con una forza tranquilla sotto il suo logoro cappello in cuoio, Daoud vuole essere resiliente come la giovane ricrescita dei suoi ulivi. Uomo d’azione, orientato al futuro, non intende abbandonare. Né la sua terra, né i suoi principi: «Non voglio stare qui seduto ad aspettare che le cose migliorino da sole. Devo agire secondo le mie possibilità. Senza odio e senza violenza». Con uno sguardo e un gesto abbraccia la sua fattoria, la Tenda delle Nazioni: «Io la chiamo speranza attiva». Più che uno slogan, la sua è una filosofia di vita, radicata nella fede cristiana ed allenata da lunghi anni di lotta per mantenere la proprietà su una terra che appartiene alla famiglia da oltre un secolo.

La storia dei Nassar inizia come quella di tanti palestinesi. Nel 1916, il nonno di Daoud, Daher Nassar, acquista un pezzo di terra in cima a una collina circa dieci chilometri a sud-ovest di Betlemme. Fa poi due cose insolite per l’epoca: registra l’atto di proprietà prima presso le autorità ottomane, poi presso quelle britanniche, quando queste assumono il controllo della regione nel 1920; decide di vivere nella fattoria, in una delle grotte che costellano il terreno.

«Vendere la tua terra è come vendere tua madre»

Dalla loro collina, i Nassar osservano la Nakba del 1948, l’inizio dell’occupazione della Cisgiordania da parte dell’esercito israeliano nel 1967 e assistono all’espansione degli insediamenti ebraici a partire dagli anni Ottanta: ben presto tutt’intorno alla fattoria ne sorgono cinque, con gli edifici dai caratteristici tetti rossi. Questi agglomerati costituiscono il terzo più grande blocco di insediamenti in Cisgiordania. Unici ostacoli ad impedire la continuità territoriale tra questi nuovi quartieri sono la fattoria Nassar e alcuni villaggi palestinesi. Per ovviare, le autorità israeliane ricorrono al loro strumento preferito: nel 1991 dichiarano l’area «terra demaniale», con una manipolazione della vecchia normativa ottomana che consente allo Stato ebraico di reclamare le terre quando i residenti non riescono a dimostrare che ne sono proprietari. In molti casi l’espediente funziona: per evitare di pagare le tasse agli ottomani o agli inglesi, i palestinesi non hanno registrato le proprietà.

I Nassar invece lo hanno fatto e oggi possiedono le carte che attestano i loro diritti. Si va in tribunale e le vertenze legali si protraggono per dodici anni. Alla fine la famiglia si sente ribattere che i documenti non sono sufficienti e che la loro terra può essere sequestrata, oppure riscattata. «Vendere la tua terra è come vendere tua madre», rifiuta Daoud. I Nassar si appellano alla Corte Suprema israeliana, che nel 2007 decide di autorizzare il rinnovo della registrazione degli atti di proprietà. Da parte dell’autorità militare israeliana che amministra il territorio in cui si trova l’azienda agricola, però, tutto tace. Nel 2021, dopo più di 170mila dollari spesi in un’interminabile battaglia legale, la famiglia resta in attesa. A trent’anni dall’inizio del procedimento, lo Stato di Israele non ha ancora riconosciuto ufficialmente la proprietà del terreno.

Collina incendiata Tent of Nations Betlemme

Oltre mille piante sono andate in fumo con l’incendio doloso appiccato nel maggio 2021 ai declivi della fattoria dei Nassar. Quasi 70mila euro di danni. Nella foto, in vetta al pendio l’insediamento ebraico di Neve Daniel. (foto C. Lemoine)

A questo fardello mentale e finanziario si aggiunge il peso di una vita quotidiana segnata da violenze e intimidazioni: lo sradicamento di alberi da parte delle autorità israeliane o degli abitanti degli insediamenti vicini si ripete con regolarità; i bacini per le riserve idriche sono in cattive condizioni, la via d’accesso più diretta alla fattoria è stata ostruita… «Cercano di complicarci la vita e di isolarci, per indurci ad andarcene», spiega la coppia. Ultimo abuso in ordine di tempo, l’incendio dello scorso maggio lascia Daoud e sua moglie interdetti. «Data l’aridità del suolo, qui gli alberi impiegano anni a crescere e per questo li abbiamo molto cari. Ciò rende ancora meno comprensibile il gesto di quei palestinesi, tanto più che fa il gioco della politica coloniale di Israele», dice Jihane, lottando per inghiottire l’emozione che irrompe nei suoi grandi occhi dolci. «Quello che stiamo passando ultimamente è davvero troppo».

Resilienza ed energia positiva

Se le pressioni subite dalla famiglia Nassar sono esperienza comune per molti residenti nell’Area C – la parte dei Territori palestinesi di Cisgiordania totalmente amministrata da Israele – è il modo di affrontarle che fa la differenza. «Alcuni – considera Daoud Nassar – credono che alla violenza si debba rispondere con la violenza. Altri si ripiegano sul ruolo di vittime che aspettano il soccorso della comunità internazionale. Altri ancora preferiscono arrendersi ed emigrare. Noi optiamo per una quarta via, quella della resistenza non violenta e della speranza attiva. Rifiutiamo di considerarci nemici».

Queste parole, dipinte su una pietra all’ingresso dell’azienda agricola, sono l’eredità del padre di Daoud. Molto prima che il concetto si facesse strada in Palestina, Bishara Nassar, ha insegnato ai suoi tre figli una teoria della non violenza radicata nelle sue convinzioni e nei suoi valori cristiani. «Mio padre credeva che i cristiani avessero un ruolo da svolgere nella costruzione di un futuro più pacifico – ricorda Daoud, un po’ malinconico –. Ripeteva spesso che la pace non verrà da una stretta di mano tra Israele e Palestina, ma dalla base: dalle persone che abitano questo Paese».

La Tenda delle Nazioni

Bishara Nassar aveva un sogno: fare della fattoria di famiglia un luogo di incontro e di pace, uno spazio di speranza e riconciliazione. I suoi figli, e in particolare Daoud, hanno raccolto il testimone e aperto a tutti la Tenda delle Nazioni nel 2002. Segnato dai suoi anni di studio in Austria e Germania, Daoud ha riportato in auge un concetto molto occidentale, quello dell’empowerment. Difficile da tradurre con una parola sola, il vocabolo inglese può essere definito come un’emancipazione che passa per la presa di coscienza e l’istruzione. Campi estivi per giovani; corsi base di inglese e di informatica per le donne del villaggio; accoglienza di volontari e di gruppi di pellegrini; il progetto di un centro di educazione ambientale… A Daoud e a sua moglie non mancano idee per ridare speranza e insegnare la resilienza ai giovani palestinesi.

Un nuovo germoglio sul tronco di un ulivo semicarbonizzato dall’incendio del maggio 2021. (foto C. Lemoine)

Perché se c’è una parola che definisce il progetto Tent of Nations, è proprio questa: resilienza. «Si tratta di utilizzare le nostre frustrazioni e delusioni in modo costruttivo, guardare alle cose in modo positivo, piuttosto che diventare un terreno fertile per rabbia e risentimento», dice Daoud. Assorbire gli choc e farli rimbalzare. Come quando, per mancanza di connessione alla rete elettrica, si è scelto di investire in pannelli solari, i primissimi installati in Palestina, nel 2009. O come quando, privi di accesso alla rete idrica, sono stati scavati a mano nel terreno roccioso della collina 20 serbatoi per raccogliere e immagazzinare l’acqua piovana. O in assenza dei permessi per costruire, si sono ricavati ambienti dalle grotte naturali presenti nel pendio.

O come quando dopo l’incendio di maggio si è deciso di non sradicare tutti gli ulivi carbonizzati per vedere se sarebbero ricresciuti naturalmente… Se la speranza avesse una forma, avrebbe quella della fattoria dei Nassar.


Aperta ai gruppi di pellegrini

Una famiglia cristiana palestinese come quella dei Nassar fa parte di quelle «pietre vive» che continuano a dare spessore a una Terra Santa sovente ridotta, nei nostri schemi mentali, ai suoi soli santuari e luoghi santi.

Alla Tenda delle Nazioni tutto è concreto: la vita nella Palestina occupata, la testimonianza dell’unica famiglia cristiana del circondario, che ha fatto dei propri valori una filosofia di vita e che cerca di diffondere il suo messaggio di pace.

In grado com’è di ospitare gruppi numerosi, la fattoria Nassar può essere una tappa per quei pellegrini che sono interessati a conoscere la Terra Santa in tutta la sua complessità. (c.l.)

L’esperienza della Tenda delle Nazioni ha un gruppo organizzato di amici anche in Italia. Per il loro sito internet clicca qui.

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