
Al termine della sua esperienza di nove anni come Custode di Terra Santa, padre Patton descrive il volto che la Custodia ha assunto in questo arco di tempo. Lui stesso ammette di essere cambiato, soprattutto grazie alle relazioni interpersonali.
Con la nomina di fra Francesco Ielpo a nuovo Custode di Terra Santa, il 24 giugno scorso, si è conclusa dopo nove anni la lunga missione di fra Francesco Patton. Agli oltre trecento frati che ha sostenuto, orientato e consigliato, dispiace molto. L’interessato, invece, è piuttosto sereno…
«Sono un frate minore – spiega fra Patton – e quindi ritengo importante che il servizio di autorità sia vissuto nella consapevolezza che è a termine e che è bene tornare a vivere da frate “semplice”. San Francesco diceva ai frati che quando uno cessa dal servizio di autorità deve essere contento, perché il valore della persona non dipende dall’incarico. Mi permetta di citare per esteso questo testo, che è l’Ammonizione XIX, perché è un testo nel quale mi rispecchio totalmente: “Beato il servo il quale non si ritiene migliore, quando viene magnificato ed esaltato dagli uomini, di quando è ritenuto vile, semplice e spregevole, poiché quanto l’uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più. Guai a quel religioso che dagli altri è posto in alto, e per sua volontà non vuole discendere. E beato quel servo che non viene posto in alto di sua volontà e sempre desidera stare sotto i piedi degli altri”».
In una lunga intervista a firma di Roberto Cetera e pubblicata il 25 giugno sull’Osservatore Romano (di cui offriamo qui ampi stralci) fra Francesco Patton ricapitola alcuni momenti fondamentali del suo servizio alla Custodia di Terra Santa, all’Ordine dei Frati minori e alla Chiesa universale.
• Giordania, Cipro, Siria, Libano, Rodi, Egitto, Israele e Palestina. Sono i territori di presenza della Custodia. Ci vuole dare un ricordo per ciascuno di questi Paesi e dei frati che li abitano?
Giordania per me vuol dire soprattutto il Monte Nebo, il luogo dal quale Mosè vede la Terra Promessa e poi muore, vuol dire per me il luogo in cui possiamo guardare la terra con distacco e il Cielo da vicino. Cipro per me vuol dire i due giorni trascorsi con papa Francesco al nostro convento della Santa Croce a Nicosia, circondati dal filo spinato e parte di una Chiesa multietnica e multiculturale che esprime il volto pentecostale della cattolicità, vuol dire anche san Barnaba, per me la più bella figura di discepolo narrata negli Atti degli Apostoli. Siria vuol dire il mio primo impatto con la guerra, nell’agosto del 2016, e vuol dire quindi ammirare la dedizione alla missione dei “miei” frati che sono rimasti accanto alla gente, senza scappare e senza preoccuparsi di sé, per i lunghi anni della guerra: pastori, non mercenari. Libano vuol dire un popolo di grande cultura e dignità, dove i frati minori hanno saputo dialogare con tutti, con i cristiani di non so quante denominazioni, con i musulmani sciiti al Sud e con i Sunniti al Nord e con le altre minoranze, mettendosi al servizio di tutti in questi anni di guerre, crisi economiche e instabilità politica. Rodi vuol dire un faro di accoglienza e di dialogo, una porta aperta a tutti e soprattutto una parola gentile che riconosce la dignità di ogni persona, anche dei profughi e dei rifugiati, questo grazie a un frate inglese molto mediterraneo di nome John Luke. L’Egitto mi richiama la bellissima esperienza di dialogo che abbiamo fatto con il più importante centro culturale musulmano sunnita ad Al Azhar nel 2019 in occasione dell’ottavo centenario dell’incontro tra san Francesco e il sultano a Damietta. Israele e Palestina non li posso separare: sono quella porzione di mondo in cui sono concentrati la quasi totalità dei luoghi santi che custodiamo e che mi permette di riconoscere la profondità delle radici dei cristiani locali che hanno il Dna di tutti quei popoli di cui ci parla il Nuovo Testamento: ebrei, samaritani, greci e pagani della Decapoli, romani giunti lì con le coorti, libanesi e siriani che frequentavano la Galilea delle Genti per ascoltare Gesù e incontrarlo. Israele e Palestina è la terra di Gesù, di Giuseppe, di Maria e degli apostoli e ogni pietra, ogni paesaggio, ogni odore, mi richiama al Vangelo e mi permette di far fare esperienza tridimensionale del Vangelo. È la terra in cui per nove anni ho potuto celebrare le pagine del vangelo dicendo ogni volta “hic”, cioè qui: il verbo si è fatto carne, è nato, ha predicato, ha guarito, è morto ed è risorto…
• Tra Covid prima e guerra poi, gli anni del suo mandato sono stati particolarmente burrascosi e certamente difficili. Che Custodia di Terra Santa lascia?
Al di là di guerra e Covid credo che la Custodia in questi nove anni sia cresciuta nella sua multiculturalità, allargandosi all’Asia e all’Africa in modo significativo e diventando così a sua volta un’ottima carta da visita della cattolicità: siamo frati di quasi 60 nazionalità diverse e di tutti continenti. L’allargamento sempre più cattolico della Custodia è forse ciò di cui sono più contento. Comunque non è mia intenzione lasciare la Custodia, e se dovessi per causa di forza maggiore lasciarla, penso che resterà sempre dentro di me.
• Come è stata in questi anni la sua esperienza personale di relazione interreligiosa? Ha avuto frequentazioni abituali, oltre i compiti istituzionali, con ebrei e musulmani?
Ho avuto soprattutto relazioni personali significative. Penso ad esempio alla relazione con l’architetto Osama Hamdan, musulmano e architetto di fiducia della Custodia prematuramente scomparso, era un uomo dotato di grande sensibilità e spiritualità, che da musulmano amava molto Gesù, ed era l’evidenza che ci può essere sintonia, collaborazione e amicizia fraterna tra cristiani e musulmani. Sul versante ebraico voglio ricordare un nostro collaboratore per la comunicazione, Amir, col quale c’è stato un cammino non solo di collaborazione, ma ancora una volta di amicizia fraterna e ini alcuni momenti difficili, di incoraggiamento a non perdere la speranza di fronte all’esperienza del male.
• E i suoi rapporti con i rappresentanti delle altre confessioni cristiane?
Direi molto buoni, anche se sicuramente la relazione più significativa è stata con il patriarca greco-ortodosso Theophilos III, che mi ha insegnato molto da tanti punti di vista e che tante volte mi ha incoraggiato e facilitato anche nel mio servizio di Custode. È un vescovo che crede molto nel dialogo e – per usare una sua espressione – sa che tutti noi dobbiamo lavorare perché arrivi il giorno in cui potremo alzare insieme il calice nella celebrazione eucaristica nel luogo più santo della cristianità, cioè al Santo Sepolcro.
• Il suo mandato custodiale è coinciso in gran parte con il pontificato di papa Francesco. Il quale le ha fatto dono di una bellissima prefazione al libro che racconta la sua esperienza di Custode. Che ricordo si porta nel cuore di Francesco?
Il ricordo più bello sono i giorni trascorsi con lui a Cipro nel dicembre del 2021. Ricordo la semplicità, l’umiltà e l’umanità con cui ha accolto la mia richiesta di registrare con lo smartphone un messaggio per i giovani di Terra Santa. E in quella occasione ci ha offerto un messaggio di speranza, l’invito ad alzare la testa e a credere che in questa terra santa noi non abbiamo colo un passato da ricordare ma anche un futuro da costruire.
• Come esperienza umana e personale cosa porta con sé di questi nove anni?
Credo di essere diventato umanamente un po’ più paziente, imparando dai cristiani locali che per rimanere qui bisogna amare questa terra, essere resilienti, e capire che appartenere a questa terra non è una maledizione ma una vocazione.
(sintesi dell’intervista a cura di Giuseppe Caffulli)
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