Una quindicina di vescovi d'Europa, Nord America e Sud Africa ha partecipato alla sessione 2018 del Coordinamento Terra Santa. Un'esperienza che si ripete ogni anno in gennaio.
Anno dopo anno, a partire dal 1998, una delegazione di vescovi d’Europa, Nord America ed ora anche Sud Africa si reca in Terra Santa a gennaio in segno di solidarietà alle comunità cristiane locali, ma anche per una maggiore conoscenza della regione. I membri di questo Coordinamento Terra Santa non sono sempre gli stessi perché l’intento è anche quello di ridurre le distanze tra le conferenze episcopali delle floride nazioni d’Occidente e i popoli delle terre bibliche, consentendo a sempre nuovi vescovi di toccare con mano la realtà (stavolta la Cei era stata rappresentata da mons. Riccardo Fontana, arcivescovo di Arezzo-Cortona-Sansepolcro).
Quest’anno il viaggio si è svolto dal 13 al 18 gennaio e s’è aperto con una trasferta dei vescovi a Gaza, dove ormai non resta che un migliaio di cristiani, fra i quali 150 cattolici. Gli altri incontri in agenda, a Gerusalemme e dintorni, hanno consentito ai presuli di confrontarsi con giovani studenti di scuole e università israeliane e palestinesi, confessionali o laiche.
Il comunicato ufficiale diffuso al termine del soggiorno pone in dialettica le attese delle nuove generazioni rispetto alle promesse non mantenute da quelle più adulte, politici in prima linea.
«Abbiamo ascoltato giovani di ogni parte – si legge in un brano del comunicato – che condividono tutti le medesime aspirazioni di coesistenza pacifica, e invece devono misurarsi con realtà del tutto differenti e con poche opportunità di incontrarsi o comprendere le reciproche speranze e paure. Per un’intera generazione la prospettiva di pace è stata allontanata ancora di più da decisioni moralmente e legalmente inaccettabili, pensiamo in particolare al recente affronto allo status internazionalmente riconosciuto di Gerusalemme, città sacra ad ebrei, cristiani e musulmani. I giovani della Terra Santa sono stati costantemente delusi tanto dai loro leader quanto dalla comunità internazionale. La rabbia che abbiamo potuto constatare è del tutto giustificata, ma è anche segno che i giovani conservano la convinzione di dover lottare per il cambiamento».