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Ricordi di viaggio, a Genova

Manuela Borraccino
24 luglio 2012
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Abiti pashtun di squisita fattura risalenti ai primi del Novecento; una thob palestinese con i tradizionali motivi floreali in punto croce; collane yemenite in corallo e metallo. C’è tutto lo stupore, la curiosità e la passione dei viaggiatori occidentali per la cultura del Vicino Oriente nella mostra "Ricordi di viaggio", allestita nel Palazzo Bianco di Genova fino al 21 ottobre.


Ricordi di viaggio. Abiti e accessori dal Vicino Oriente donati alle Collezioni tessili supera lo sguardo orientalista degli esploratori europei dell’Ottocento verso l’Impero Ottomano e lascia intravvedere tra i suoi manufatti i bagliori bellici del Secolo breve. Sono infatti i fili della memoria e della storia ad aver condotto una collezione di abiti orientali da Trieste al Centro studi Tessuto e Moda di Genova. Perché quando, nel 1940, la giovane sposa di origine greca Sofia Arvanitis Goldschmied fuggì nel capoluogo ligure col marito appartenente ad una facoltosa famiglia ebraica triestina, non pensava che meno di tre anni dopo il marito sarebbe stato trovato e deportato ad Auschwitz, dove morì entro breve tempo. Tornata a Trieste con i due figli dopo la guerra, alla fine degli anni Cinquanta la Arvanitis prese a viaggiare in Afghanistan, Yemen, Turchia, Palestina, Libano, Siria. E a comprare abiti e gioielli che orgogliosamente custodiva e indossava.

Così è giunta fino a noi questa piccola collezione, di grande interesse, donata alle Collezioni tessili dalla figlia Diana Goldschmied. Abiti e manufatti vissuti, ma che hanno mantenuto intatta la sapienza delle mani che li hanno cuciti e ricamati: dal tripudio di colori dell’abito pashtun in taffetas di seta e in stile patchwork dei primi del Novecento – specchio del mosaico di etnie che compongono l’Afghanistan – all’abito turkmeno con intarsi in metallo; dalla thob degli anni Quaranta proveniente da Ramallah in viscosa, probabilmente ricamata a quattro mani, al sontuoso entari (sopraveste femminile) turco, fino alle sete policrome della veste siriana probabilmente di fine Ottocento.

E ancora: cinture provenienti dal Turkmenistan, collane d’epoca in metallo puntinato, copricapo. Manufatti che accompagnano il visitatore nel coloratissimo mondo femminile del Vicino Oriente e nelle atmosfere cariche di fascino dei suq afghani, yemeniti, siriani com’erano fino agli anni Settanta del secolo scorso, prima che le guerre allontanassero i viaggiatori e prima che il turismo di massa alterasse la produzione artigianale locale e il commercio dell’antiquariato ottomano.

La mostra ospita anche rare incisioni e libri dell’Ottocento con resoconti di viaggio nell’Impero Ottomano appartenenti a famiglie genovesi di collezionisti, come i Luxoro: così, accanto agli ottocenteschi yaglik (tovaglioli ricamati) turchi, si trovano le cronache dei Voyages de monsieur Jean Chardin, un aristocratico francese che fissò in un diario le impressioni di un viaggio in Persia nel 1660. O quelle degli itinerari e degli scavi intrapresi in Iraq a partire dal 1840 dal britannico lord Austen Henry Layard, uno dei primi archeologi a scoprire i tesori di Ninive.

A Palazzo Bianco – sede del Centro studi del Velluto, del Damasco e del Jeans (la tela da lavoro genovese nota fin dal 1567 come “blue de Genes”, con la quale i marinai fabbricavano le vele e le coperte per le merci) – è stato allestito un omaggio alla ricchezza e alla raffinatezza della cultura mediorientale così come l’hanno scoperta e amata i viaggiatori occidentali. Con un monito sulla necessità del dialogo interculturale: la mostra si chiude con la pagina aperta di un libro fotografico del 1930 su un ritratto in bianco e nero di una bellissima e sorridente donna palestinese in abiti tradizionali, «Donna araba di Ashdod». Il volume si intitola Palestina e rappresenta una rara monografia dedicata agli usi e costumi del popolo palestinese e di quelli che all’epoca erano i coloni ebrei da parte del geografo di religione ebraica Roberto Almagià, già docente all’università di Roma “La Sapienza”, costretto a lasciare l’incarico universitario dalle leggi razziali del 1938.

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