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Iraq, l’orizzonte resta cupo

Angelo Calianno
17 gennaio 2020
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Iraq, l’orizzonte resta cupo
La desolazione di Mosul attende nuova vita. (foto A. Calianno)

Le schermaglie delle scorse settimane tra Stati Uniti e Iran, le potenze straniere che controllano l’Iraq, hanno messo in ombra la grave situazione in cui versa la popolazione in rivolta. Torniamoci sopra.


Ripetute violenze stanno insanguinando l’Iraq negli ultimi mesi. L’uccisione il 3 gennaio scorso del potente generale iraniano Qasem Soleimani, simbolo dell’influenza militare di Teheran nel Paese, con le conseguenti rappresaglie dei giorni seguenti, riporta al centro dei conflitti internazionali un Paese già scosso da sommovimenti interni.

A fine novembre il primo ministro iracheno Adel Abdul Mahdi ha rassegnato le dimissioni, pur mantenendo una posizione di «traghettatore» in attesa di nuove elezioni. Da ottobre sono stati quasi 500 i morti e più di 19 mila i feriti tra i manifestanti. Le forze di sicurezza irachene hanno aperto il fuoco, sparato sulla folla senza troppi scrupoli, con la complicità delle milizie sciite filoiraniane.

Un Paese ancora instabile

Ma che cosa ha fatto esplodere la violenza di questi ultimi mesi? Benché l’Iraq dal 2017, cioè dopo la riconquista dei territori settentrionali occupati dal sedicente Stato islamico, sia considerato un Paese abbastanza stabile, la realtà è diversa.

L’Occidente spesso dimentica la grande divisione tra sciiti, circa due terzi dei musulmani iracheni, e sunniti, un terzo. L’ultimo governo «laico», anche se il suo leader era di fede sunnita, è stato quello del dittatore Saddam Hussein. Dopo l’invasione da parte degli Usa nel 2003, è stato instaurato un governo parlamentare in cui leader religiosi sciiti, come ad esempio Muqtada al-Sadr, hanno avuto un’influenza preponderante sul governo di Baghdad. Un esecutivo che, però, nel corso degli anni è diventato sempre più corrotto: molti membri della classe dirigente si sono arricchiti senza attuare riforme, negli ultimi anni, in grado di migliorare le condizioni di vita: le ultime iniziative politiche in campo scolastico o sanitario risalgono a prima del 2003.

Guidando lungo le strade che portano a Baghdad è facile riconoscere i «palazzi» dei membri del governo: grandi ville a più piani fuori dai centri abitati, sorvegliate da guardie private. Un’ostentazione di ricchezza che, in un Paese in costante crisi, fomenta un odio crescente. Nel 2014, un leader religioso sunnita di nome Awwad Ibrahim Al-Badri fece leva proprio su questo sentimento antisciita e antigovernativo per dare il via a un jihad contro l’Occidente. Al-Badri in seguito è divenuto famoso con il nome di Abu Bakr Al-Baghdadi. Il suo gruppo si è affermato con l’acronimo arabo Daesh (che sta per Al Dawla Al Islamiya fi al Iraq wa al Sham, ovvero «Stato islamico dell’Iraq e della Siria»), meglio noto in Occidente come Isis. Al Baghdadi ne è stato al vertice fino alla sua uccisione il 26 ottobre 2019.

Mosul la desolata

A Mosul – la città del Nord che tra il 2014 e il 2017 è stata nelle mani degli uomini dell’Isis e che ha patito una sanguinosa riconquista – ci si rende subito conto della totale assenza del governo. Fares, un impiegato del municipio, ci racconta: «Come vedete, le bombe degli americani hanno distrutto tutto. Prima siamo stati occupati da Daesh e, per punire loro, gli americani hanno finito per distruggere anche noi». Ma non c’è un piano di ricostruzione da parte del governo gli chiediamo? Fares scuote la testa e aggiunge: «Quelli sono amici degli americani e pensano solo a mettersi i soldi in tasca. È stato redatto un piano nel quale si stima che solo per le infrastrutture basilari di Mosul, ci vorrebbe oltre un miliardo di dollari. I lavori non sono mai iniziati e mai inizieranno».

Pochi giorni prima del nostro arrivo a Mosul, un bambino di 6 anni è rimasto ucciso per l’esplosione di un ordigno rimasto tra le macerie. Nella profonda crisi economica, chi non scappa si aggira nei palazzi distrutti per cercare metalli da poter rivendere, soprattutto rame e acciaio.

In quella che è stata soprannominata la «battaglia di Mosul» nel 2017 sono rimasti uccisi almeno 500 civili, secondo alcune fonti molti di più. Circa 700 mila sono invece le persone che hanno perso le proprie case e sono fuggite. Nessuno ha mai ammesso che, il bombardamento per sconfiggere l’Isis, sia stato in realtà un massacro di innocenti. Di recente solo l’Australia ha espresso il proprio cordoglio ammettendo che, quella a Mosul, è stata una strage di civili che si poteva evitare.

Il petrolio di Kirkuk

Nelle scorse settimane Kirkuk è stato uno dei centri dei maggiori scontri. Questa città di circa 600 mila abitanti in Europa è poco sconosciuta, ma è un centro nevralgico iracheno e per questo ha visto scoppiare molte violenze tra manifestanti e militari. Lo stesso era accaduto negli anni scorsi tra curdi e forze irachene, allo scopo di prenderne il controllo. Nel 2017 si sono dati battaglia l’Isis e i nuclei antiterrorismo. Venerdì 27 dicembre a Kirkuk trenta razzi hanno colpito una base militare irachena dove si trovano anche i militari statunitensi. Diverse persone sono state ferite e un contractor americano ha perso la vita. Il fatto ha segnato una svolta cruciale, se si considera che una settimana dopo c’è stato il raid aereo vicino all’aeroporto di Baghdad in cui è morto in generale Soleimani.

L’interesse per Kirkuk gravita intorno al petrolio. Nella zona si trova uno dei giacimenti più antichi del Medio Oriente, nonché uno dei più grandi: si è stimato che il sottosuolo possa contenere più di 9 miliardi di barili di petrolio. Ahmed Salah è un sottufficiale iracheno proprio a Kirkuk. Ci racconta: «Dopo il 2017 il governo ha cominciato ad avere paura di una seconda ondata di terrorismo. Tutti quelli che hanno avuto a che fare con Daesh in qualche modo: famiglie dei combattenti, amici, vicini di casa, perfino i camerieri che servivano i pasti sono stati incarcerati o interrogati. Sono tuttora sotto sorveglianza».

Il governo iracheno in realtà, anche prima che si affermasse Daesh, era noto per la repressione dei dissidenti, quasi sempre sunniti, che si opponevano al governo. Molti finivano a Camp Bucca, un centro di detenzione vicino a Bassora gestito dalla coalizione iracheno-statunitense. Al-Bahgdadi fu imprigionato per dieci mesi proprio in questo carcere e lì gettò le basi organizzative dell’Isis.

Lo scontento ha rotto gli argini

Le proteste di questi mesi sono, perciò, il risultato di anni di crescente malcontento, repressione silenziosa, sfruttamento del territorio senza investimenti o riforme, corruzione della classe politica. I manifestanti chiedono una nuova legge elettorale e un governo che non sia più legato ai leader religiosi.

Sin dall’inizio delle proteste, le forze della coalizione internazionale hanno aperto un’indagine su possibili infiltrazioni di sunniti, ex cellule dell’Isis, tra i manifestanti. Con l’inasprirsi degli scontri, ora si considera anche una possibile responsabilità delle milizie filoiraniane nel soffiare sul fuoco delle proteste per alimentare il caos.

Tra Iraq e Siria oggi sono presenti militari della coalizione antiterrorismo provenienti da ben 74 Paesi tra cui l’Italia. Finora hanno appoggiato gli Stati Uniti che sostengono il governo iracheno. Solo Ong come Amnesty International e Human Rights Watch cercano di comprendere le ragioni di chi protesta. E non c’è stata nessuna sanzione o intervento internazionale contro gli omicidi e gli arresti indiscriminati dei civili iracheni.

L’uccisione di Soleimani ha spostato lo scontro a livello di Iran e Stati Uniti, ma la popolazione civile irachena può subirne le conseguenze: una nazione che fatica a riprendersi da decenni di conflitti, a soli due anni dalla fine della guerra contro l’Isis, rischia di trovarsi intrappolata in un conflitto tra Washington e Teheran che più di tutti ne influenzano le sorti. Se non ci saranno interventi diplomatici di pace e nuovi piani di sviluppo, questi fattori, insieme a un governo instabile e alla corruzione diffusa, peggioreranno un’economia già fragilissima, provocando ulteriori fughe di massa e nuove violenze.

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