La scrittrice Jokha Alharthi, dell'Oman, con il suo romanzo Celestial bodies («Corpi celesti») si è aggiudicata il premio Man Booker, riconoscimento letterario che si assegna nel Regno Unito a romanzi in traduzione.
Una su mille ce la fa. E quando ce la fa, rappresenta tutte, come un corpo solo. Così, Jokha Alharthi, scrittrice omanita quarantenne, è adesso la donna più osannata del mondo arabo, soprattutto da scrittrici, attiviste, intellettuali, in virtù di un premio prestigiosissimo vinto con il suo romanzo Celestial bodies («Corpi celesti»). Il premio è il Man Booker, riconoscimento letterario che si assegna nel Regno Unito a romanzi in traduzione.
Il compenso, in denaro, è consistente: sono 64mila dollari, una parte dei quali è destinata alla traduttrice del romanzo dalla lingua araba, l’inglese Marylin Booth. La presidente di giuria, Bettany Hughes, è soddisfatta dalla votazione all’unanimità e ha sottolineato l’importanza di questo romanzo che «unisce una certa delicatezza al racconto spietato di una storia che ci accomuna». Hughes si riferisce al tema centrale del romanzo: le conseguenze, in Oman, della dominazione coloniale inglese, descritta utilizzando il prisma del racconto di famiglia.
Come in Piccole donne di Theresa May Alcott, in Celestial bodies le protagoniste sono sorelle (molto diverse tra loro): Mayya che sposa Abdallah dopo una delusione d’amore; Asma che si sposa per senso del dovere; e Khawla, il cui amato emigra in Canada. Le vicende delle tre sono l’espediente narrativo per raccontare un Paese in bilico tra tradizione e innovazione, nel momento in cui l’Oman si evolveva da Paese caratterizzato da una società tradizionale in cui si praticava ancora la schiavitù, a volano di sviluppo in un presente del tutto diverso.
La Alharthi, che non è nuova al grande pubblico arabo, anche in virtù dei numerosi servizi televisivi realizzati su di lei, ha detto: «Con questo premio, spero che i lettori internazionali scoprano l’Oman e sappiano che lì c’è una comunità di scrittori e di artisti di talento che vivono e lavorano per l’arte».
Jokha Alharthi, peraltro, non è esattamente un’emergente: ha già scritto due raccolte di racconti brevi, un libro per bambini e tre romanzi; e ha conseguito il dottorato in poesia araba all’università di Edimburgo, oltre ad insegnare alla Sultan Qaboos University di Muscat. Così, per una volta, la vincita di una donna non è diventata motivo di invidia o di incitamento all’odio: Jokha è stata sommersa di complimenti e congratulazioni proprio dalle sue omologhe arabe perché la sua vittoria ha sdoganato decenni di talenti e di fatiche non riconosciuti sulla scena internazionale. Era ora che la vittoria di una le facesse vincere, idealmente, tutte.
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
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Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).
Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).