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Riflessioni sulla battaglia di Baghouz

Fulvio Scaglione
19 marzo 2019
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Si combatte aspramente, e senza esclusione di colpi, la battaglia contro l'ultima roccaforte dell'Isis. E pure qui si ripete la maledizione di tutte le ultime guerre: muoiono soprattutto civili. Anche quando "arrivano i nostri".


Il meccanismo fondamentale della propaganda è binario, inalterato da secoli: parlare tanto oppure tacere sempre. Parlare tanto dei “peccati” altrui e tacere sui propri. Un meccanismo rozzo ma efficace, soprattutto da quando esiste l’informazione di massa di (in ordine di pervasività) giornali, televisione e Rete.

Lo vediamo bene anche ora che si parla di Baghouz, l’oscura città siriana lungo l’Eufrate, a pochi chilometri dalla frontiera con l’Iraq, assurta a improvvisa fama perché trasformata dai jihadisti dello Stato islamico nell’ultimo baluardo della loro resistenza. Contro Baghouz muovono le Forze Democratiche Siriane (Syrian Democratic Forces, Sdf), alleanza di reparti curdi e arabi sostenuti politicamente e militarmente dagli Usa.

Da quando, nel 2014, la milizia jihadista ha fatto la propria comparsa in Siria e in Iraq fondando il Califfato (ma l’Isis operava già da prima), è passato più tempo di quanto ne sia occorso, ai tempi, per annientare Hitler e la formidabile macchina da guerra del nazismo. E Hitler non aveva contro una coalizione di 70 Paesi come invece aveva, almeno in teoria, l’Isis. È quindi più che tempo di farla finita con questi terroristi che hanno deciso di morire piuttosto che arrendersi. Anche perché la fine ormai vicina non li ha resi migliori: man mano che le forze dell’Isis si ritirano, quelli dell’Sdf scoprono fosse comuni piene di cadaveri di civili trucidati. Una, pare, con decine e decine di corpi di donne yazide assassinate dopo essere state usate come schiave.

Badiamo però a come si svolge questo capitolo finale. Di giorno le forze curde e arabe avanzano con grandissima cautela, perché l’Isis combatte con astuzia e spietatezza impiegando i cecchini, dispiegando trappole (la morte del combattente italiano Lorenzo Orsetti è stata una drammatica conferma), piazzando origini esplosivi, lanciando kamikaze. Di notte tutto cambia. Gli americani usano i droni e gli aerei e martellano la città, dove i civili peraltro sono ridotti alla fame. Coloro che sono riusciti a scappare da Baghouz raccontano di centinaia di abitanti usati come scudi umani dai terroristi e uccisi dai bombardamenti. Si ha anche il sospetto che alcune delle fosse comuni contengano, appunto, i corpi di quelli morti sotto le bombe.

Però, e torniamo al tema della propaganda, nessuno ne parla. In perfetta linea con quanto abbiamo già visto: Aleppo era una carneficina di innocenti, medici, soccorritori. Raqqa, Mosul in Iraq e ora anche Baghouz delle “normali” spedizioni militari. La ragione è semplice: ad Aleppo operavano i “cattivi”, l’esercito di Assad e i russi; negli altri casi i “buoni”, gli americani e i curdi.

Anche ammesso che questa distinzione tra “buoni” e “cattivi” sia valida, resta un problema. Un civile è un civile, in qualunque città. E una bomba è una bomba, chiunque la sganci. E rispetto a questa realtà, la propaganda di cui sopra è ripugnante. Non tanto perché spinge a fare il tifo per questo o per quello, ma soprattutto perché tende a nascondere la realtà della guerra contemporanea, che è guerra “sui” civili. Nella prima guerra mondiale i morti civili furono circa il 16 per cento di tutti i morti. In un arco di tempo simile a quello del conflitto 1915-1918, in Iraq, dopo l’invasione anglo-americana, i morti civili furono il 90 per cento del totale. Anche nella guerra siriana i morti senza uniforme sono stati assai più numerosi di quelli in divisa. Nella guerra contemporanea, le “vittime collaterali” sono i militari. La consapevolezza di questo fatto, che rende il conflitto armato ancor più inaccettabile, deve valere sempre. A Baghouz come ad Aleppo, a Fallujah come a Gaza, ad Afrin come a Raqqa o nello Yemen. Come ovunque.

 


 

Perché Babylon

Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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