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Il vero volto di Gerusalemme

Giorgio Bernardelli
11 dicembre 2017
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Nel suo discorso del 6 dicembre, Donald Trump ha detto che è ora di guardare in faccia la realtà di Gerusalemme. Lo prendiamo in parola. Leggete qui.


«Riconoscere la realtà». Così Donald Trump – nella sua ormai famosa dichiarazione – ha motivato la scelta degli Stati Uniti di riconoscere anche ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele. Quanto è successo dopo lo stiamo vedendo, così come stiamo ascoltando tantissime analisi sulle ripercussioni politiche di questa dichiarazione. Ma resta una domanda di fondo: che cosa vuol dire davvero «riconoscere la realtà» a Gerusalemme?

Una delle risposte più interessanti l’ho trovata in questi giorni in una serie di tweet di Dan Rothem, che a Tel Aviv è un ricercatore del Daniel Abraham Center for Middle East Peace (oltre a essere un ex nazionale israeliano di baseball). «Trump – ha scritto – dice che riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele ha solo riconosciuto la realtà. Bene. Proviamo a guardare un po’ meglio la realtà di Gerusalemme». Dopo di che ha snocciolato 20 tweet di mappe, dati e grafici tratti dal Jerusalem. Facts and Trends 2017, l’edizione più aggiornata del rapporto del Jerusalem Institute for Policy Research, il più accreditato centro studi israeliano su Gerusalemme (lo fondò nel 1978 il sindaco di allora Teddy Kollek insieme alla Jerusalem Foundation e alla Hebrew University; non esattamente un’assemblea di attivisti filo-palestinesi).

Scorrere i suoi tweet (e magari anche sfogliare qualche pagina del rapporto) potrebbe essere un esercizio interessante per chi magari – anziché parlare del re Davide o del califfo Omar – preferirebbe ragionare sulla Gerusalemme di oggi e di domani. Partendo dalla prima domanda: quanto è grande Gerusalemme?

Nonostante lo stereotipo tivù mostri un fazzoletto di case e strade intorno al Muro del Pianto e alla cupola di al Aqsa, l’attuale municipalità copre un’area di 126 kmq (più o meno come i due terzi di Milano). Ed è così grande perché fu Israele a deciderlo nel 1967, estendendone i confini non solo ai 7 chilometri quadrati che prima della Guerra dei sei giorni costituivano la Gerusalemme giordana, ma a ben 70 chilometri quadrati aggiuntivi. Per ragioni essenzialmente militari inglobò tutto il territorio dei villaggi arabi e delle campagne fino alle colline circostanti; ed è così che è nata la Gerusalemme est di cui parliamo oggi. Che è poi la parte della città che sta continuando a crescere anche per quel che riguarda i quartieri ebraici.

Ma «riconoscere la realtà» è soprattutto accorgersi che quella con cui abbiamo a che fare è la Gerusalemme meno ebraica dal 1967 ad oggi: alla fine della Guerra dei sei giorni gli ebrei israeliani costituivano il 74 per cento della popolazione della città; oggi sono scesi al 63 per cento (e specularmente gli arabi – attualmente 323 mila – sono saliti dal 26 per cento al 37 per cento). Altro dato interessante: il tasso di crescita della popolazione ebraica di Gerusalemme è all’1,5 per cento: più basso non solo di quello della popolazione araba (2,5 per cento) ma anche della stessa media di Israele (2 per cento). Dunque il 37 per cento di arabi è destinato a salire ulteriormente; ed è interessante il raffronto con il dato del 1922, quando gli arabi erano il 46 per cento e gli ebrei il 54 per cento. Un secolo dopo, e nonostante tutto quanto è successo, Gerusalemme si avvia a tornare non molto lontano da quella proporzione.

Altri dati importanti: Gerusalemme è una città giovane. L’età media è di 24 anni, contro i 30 di Israele nel suo complesso, i 35 di Tel Aviv e i 38 di Haifa. L’anno scorso a Gerusalemme sono nati 23.600 bambini, 15.400 israeliani (65 per cento) e 8.200 palestinesi (35 per cento). La «capitale unita e indivisibile» è inoltre una città da cui sono più gli ebrei che se ne vanno di quelli che arrivano: 18.100 residenti emigrati contro i 10.300 immigrati (con un saldo negativo di 7.800 persone, che equivalgono all’1,5 per cento della popolazione ebraica).

Infine il dato che lo splendore delle pietre tirate a lucido non basta a nascondere: Gerusalemme è una città povera. Le statistiche dicono che sotto la soglia delle povertà vive il 39 per cento delle famiglie residenti, il 47 per cento della popolazione e il 58 per cento dei bambini (quasi 190 mila). Discorso che non riguarda solo gli arabi: pure il 27 per cento della popolazione ebraica nella Città Santa vive in condizioni di povertà. Anche perché la disoccupazione è alta: solo il 67 per cento della popolazione tra i 25 e i 64 anni risulta attiva. E non certo tutti studenti delle scuole rabbiniche.

«Riconoscere la realtà». Provare a farlo sul serio potrebbe diventare un primo passo per cominciare a ragionare sulla Gerusalemme di domani. E non andare avanti invece a scontrarsi in maniera ideologica solo sulla storia e sulle bandiere da issare sulle mura della Città Vecchia.

Clicca qui per vedere i tweet di Dan Rothem

Clicca qui per consultare il Jerusalem. Facts and Trends 2017

 


 

Perché “La Porta di Jaffa”

A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.

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Francesco D'Assisi

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