Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Ben Tzion, un ingenuo a Medina

Giorgio Bernardelli
24 novembre 2017
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Un giovane ebreo israeliano è riuscito a recarsi pellegrino a Medina, in Arabia Saudita, dove abitualmente sono ammessi solo i musulmani. Il suo voleva essere un gesto di pace, ma...


Si può davvero costruire la pace con un selfie? Sui social network in Israele e nei Paesi arabi la notizia del giorno è l’«impresa» di Ben Tzion, un giovane israeliano che ha postato un’immagine che lo ritrae con l’abito tradizionale saudita nella moschea del Profeta a Medina, il secondo in assoluto tra i luoghi santi dell’islam.

La notizia ha avuto una grande eco anche per il modo in cui il quotidiano The Times of Israel l’ha rilanciata: Ben Tzion, che è un ebreo di origini russe, non è nuovo a questo genere di iniziative. Il giornale racconta infatti che in passato era già stato anche in Iran a Qom – la città santa degli sciiti – e ha visitato anche altre moschee in Libano e in Giordania. Soprattutto spiega che dietro al suo gesto ci sarebbe non una provocazione, ma un intento di pace: Ben Tzion racconta di non aver nascosto la sua identità ebraica e di essere stato accolto con gentilezza da tutte le persone che ha incontrato. Va anche detto che nel selfie scattato a Medina tiene in mano una borsa con il suo nome scritto in caratteri ebraici; e quella borsa – ha spiegato – conteneva i suoi tefillin, i filatteri con i quali l’ebreo osservante tiene strette al proprio corpo alcuni alcune pagine chiave della Torah nel momento della preghiera.

Un paio di precisazioni sono necessarie per capire questa storia: Ben Tzion è nato in Russia dove è rimasto fino a quando – all’età di 19 anni – i genitori lo hanno mandato a studiare economia in un college vicino a Boston. È stato solo alla fine di quell’esperienza, nel 2014, che ha compiuto l’aliyah, cioè è immigrato in Israele acquisendone la cittadinanza in quanto ebreo. Questo significa che oltre a quello israeliano ha certamente un passaporto russo, che gli ha permesso di entrare anche in quei Paesi privi di relazioni diplomatiche con Israele. Inoltre al college di Boston Ben Tzion aveva amici sauditi – inviati come lui a studiare negli Stati Uniti – che si suppone gli abbiano dato una mano nel suo viaggio.

Va infine aggiunto che – a detta di Ben Tzion – tanto è stata amichevole l’accoglienza ricevuta dai suoi interlocutori musulmani sul posto, quanto invece la sua eco social sta sollevando un putiferio (e non era così difficile immaginarlo). Da parte araba i più teneri stanno leggendo politicamente questa vicenda come una sorta di icona del nuovo asse tra l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman e Israele, in nome del comune nemico iraniano. C’è però anche chi dagli strali geopolitici è già passato alle invettive religiose, gridando alla «profanazione sionista». Al punto che Instagram ha dovuto sospendere il profilo di Ben Tzion.

Sono ovviamente letture esagerate. Il problema però è un altro: la banalizzazione estrema della sfida della pace. L’idea che basti qualche amicizia e una galleria di autoscatti per risolvere i problemi del Medio Oriente. La pace invece ha sempre un prezzo, richiede fatica, mal si sposa con gli esibizionismi e con i ritmi veloci e poco impegnativi di un’immagine virale.

Personalmente sono convinto che Ben Tzion fosse in buona fede. Ma mi piacerebbe che – tanto lui quanto noi – da questa storia imparassimo una cosa: la pace non è un reality show, ma una sfida tremendamente seria. Ha che fare con la carne delle persone, con le ferite. E con il bisogno di un balsamo un po’ più convincente di un’avventura esaltante alla Pechino Express.

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Clicca qui per leggere l’articolo del Times of Israel sui viaggi di Ben Tzion

Clicca qui per leggere in italiano un articolo del quotidiano La Stampa dedicato a questa vicenda

 


 

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