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La cesta di Ireneos

Giuseppe Caffulli
13 febbraio 2012
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La cesta di Ireneos
La finestra del monaco Ireneos, già patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme. Deposto nel 2005, per protesta ha scelto di vivere isolato. (foto G. Caffulli)

Gerusalemme. All’incrocio tra la cosiddetta «strada del patriarcato greco» e la tortuosa viuzza che sbuca alla porta di Giaffa c'è una sorta di torrione tondo. Il curioso edificio attira l’attenzione dei pellegrini anche per una cesta penzolante a mezz’aria. È quello l'unico contatto tra il deposto patriarca greco ortodosso Ireneos I e il resto del mondo...


Gerusalemme. All’incrocio tra la cosiddetta «strada del patriarcato greco» (sulla quale non a caso si apre l’elegante portone della sede patriarcale), e la tortuosa viuzza che sbuca alla porta di Giaffa, tra le altre case e i palazzi un tempo splendidi (e ora ricoperti da una patina di decadenza) si distingue una sorta di torrione tondo. Una stranezza nelle forme architettoniche prevalentemente squadrate della città vecchia. Ma non è l’unica curiosità dell’edificio. Ad attirare l’attenzione dei passanti e dei pellegrini che scendono in gruppo verso il Santo Sepolcro, è una cesta penzolante a mezz’aria, appesa a una corda governata da una carrucola. Un paio di volte al giorno, la cesta viene calata da un uomo ormai curvo per gli anni, la barba grigia incolta ad incorniciargli il viso, una croce dorata sopra un liso abito sacerdotale. Una donna, qualche volta una suora, depone nella cesta dei viveri: pane, verdure, l’immancabile hummus, del riso bollito. E ad un segnale la cesta risale fino al secondo piano del torrione, per sparire all’interno trattenuta da mani ormai ossute.

Da qualche anno si è rifugiato qui, o meglio vi si è segregato, il settantatreenne deposto patriarca greco ortodosso Ireneos I.

La sua storia prende una svolta tragica alla fine del 2004, quando il comportamento del patriarca – che secondo i rilievi mossi dai suoi confratelli avrebbe leso gravemente i diritti della Chiesa – induce il Sinodo ortodosso di Gerusalemme a rimuoverlo dall’incarico. Cosa che avverrà il 7 maggio 2005. Pochi giorni dopo, il 24 maggio, il Sinodo pan-ortodosso di Costantinopoli (Istanbul) ratifica la decisione e «scomunica» Ireneos I, sollevandolo dall’autorità patriarcale.

Nonostante che il governo israeliano, con guardie armate piazzate nel monastero greco della città vecchia, abbia continuato a difendere a lungo la presenza del patriarca nella sede, alla fine Ireneos I non ha potuto far altro che arrendersi. Al suo posto il Sinodo ha scelto Teofilo III tra i membri della confraternita monastica del Santo Sepolcro.

Ormai ridotto al rango di monaco, l’ex patriarca ha mosso tutte le pedine politiche di cui disponeva, in Israele e fuori, per resistere. In un’intervista al Jerusalem Post s’è spinto a dichiarare senza mezzi termini che «la nomina di Teofilo III è un atto illegale che Israele, sempre attento alla legalità, giustamente non riconosce». Il riconoscimento al nuovo patriarca – che riguarda la sfera della rappresentanza legale, non certo la legittimità ecclesiale – arriverà solo nel 2007, dopo un lungo braccio di ferro con l’autorità israeliana, volto anche a invalidare le vendite autorizzate da Ireneos I.

Oltre che contestare la legittimità della propria rimozione, Ireneos ha sempre sostenuto la sua estraneità ai fatti (non ancora del tutto chiariti) che la determinarono. C’è chi vocifera che dietro le accuse di aver venduto (o meglio: svenduto) delle proprietà del patriarcato ad affaristi israeliani ci fosse una faida interna alla Chiesa ortodossa di Gerusalemme, che possiede enormi proprietà immobiliari e terreni. Gli addebiti mossi ad Ireneos I altro non sarebbero stati che il tentativo di una corrente del Sinodo di governare quel consistente tesoro.

Sia come sia, alla fine il religioso è stato costretto a capitolare. Si è spostato allora di poche centinaia di metri, in una delle tante proprietà del patriarcato in città vecchia, mettendo in atto un’estrema forma di protesta: escludersi dal mondo, negarsi alle relazioni, tagliare i ponti con tutto e con tutti (tranne che con le donne che provvedono ai suoi pasti). Ma nel contempo rendendo ancora più visibile il suo diniego, con quella cesta penzolante all’incrocio tra due strade molto battute, nel cuore della Gerusalemme cristiana.

A distanza di anni, qualche ferita nel cuore della Chiesa greco-ortodossa resiste. Ma il magistero di Teofilo III, uomo colto e aperto, ha saputo fugare molti dubbi anche tra i fedeli ortodossi, disseminati tra Israele (40 mila) e Territori occupati palestinesi (25 mila). Resta però quella cesta di vimini sbattuta dal vento, appesa a una finestra che guarda verso il Monte degli Ulivi. Il grido muto di un uomo sconfitto, che ha scelto di chiudersi nel silenzio. E che aspetta ora di essere giudicato dalla Storia.

 

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