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Assisi clandestina, Graziella Viterbi ricorda

Giampiero Sandionigi
9 novembre 2011
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La signora Graziella Viterbi ad Assisi si sente a casa. Vi ha trascorso gli anni della sua adolescenza e giovinezza, a partire dal 1943. C'era anche lei tra gli ebrei che qui trovarono scampo dall'Olocausto. Le abbiamo chiesto di ricordare brevemente con noi alcuni dei protagonisti di quei giorni.


Il quartiere di Borgo Aretino, ad Assisi, è come un balcone sull’ampia Valle Reatina. Nei tramonti tersi pare sorridere, soddisfatto d’essere quel corridoio alberato che da Porta Nuova immette in piazza Santa Chiara.

La signora Graziella Viterbi qui si sente a casa. Ad Assisi ha trascorso gli anni della sua adolescenza e giovinezza e dice di conoscerne anche le pietre. Negli anni Cinquanta si trasferì a Roma, città che non è mai riuscita ad amare, ma qui è sempre ritornata nei periodi di festa o per le vacanze estive.

Era una ragazzina nel 1943, quando per la prima volta mise piede nell’appartamento che il padre aveva trovato in affitto al civico 11 per sé, la moglie e le due figlie ancora piccole. Il professor Emilio Viterbi, insigne e benestante accademico dell’Università di Padova, a 52 anni d’età s’era ritrovato senza difese.

Dal 1938 in poi le leggi razziali lo avevano spogliato di quasi tutto. Prima aveva perso la cattedra universitaria, poi gli amici, il rispetto sociale, e alla fine anche la città che amava. Lui e la moglie Margherita avevano deciso di non restare in balìa di un destino cupo. Chiusa casa, erano partiti per Assisi (forse non lo immaginavano, ma non sarebbero più tornati). La città del patrono d’Italia, sempre più vicina alla linea del fronte, al professore dovette parere la destinazione giusta, anche per via dello speciale affetto che lui stesso, ebreo italiano, nutriva per san Francesco. Un sentimento che, dal Cielo, il Poverello ricambiò vegliando sui Viterbi. Come migliaia di altri profughi arrivati ad Assisi, giunsero incolumi alla fine della seconda guerra mondiale. E la vita riprese.

Oggi Graziella Viterbi è tra le ultime testimoni viventi di quel che ad Assisi si fece tra il 1943 e il ’44 a salvaguardia dei profughi ebrei e della città stessa. Ha gentilmente accettato di incontrarci per ricordare con noi alcuni dei protagonisti di quella breve stagione.

Cominciamo con padre Rufino Niccacci…
Padre Rufino era uno dei due aiuti del vescovo, l’altro era don Aldo Brunacci. Due personalità completamente diverse, però ugualmente importanti. Padre Rufino era un personaggio focoso. Bastava vederlo passare per Assisi e ti sembrava che volasse. Era un frate moderno. Veniva spessissimo qui da noi al numero 11 di Borgo Aretino. Il frate passava a trovarci perché si divertiva a parlare con mio padre e con noi. Era un uomo di fuoco, più un uomo che un frate, direi. Ha fatto del bene e non solo a noi in quel momento, ma anche in seguito. Era un generoso e viveva come una persona qualunque.

Lei ha conosciuto bene anche don Aldo Brunacci…
Certo. L’ho seguito fino a pochi giorni prima che morisse (nel 2007 – ndr). Anche con padre Rufino avevamo continuato a mantenere i contatti, ma lui è morto molto prima (e aveva lasciato Assisi da tempo). Tutte le volte che venivo ad Assisi, da Roma, andavo sempre a trovare don Aldo. I miei bambini, quando erano piccoli, li lasciava salire a giocare nel giardino che sta in cima alla Casa Papa Giovanni (la casa di ospitalità fondata da don Brunacci – ndr). Spesso si cenava insieme, da lui. C’era una grande amicizia.

Che ricordi ha del vescovo Nicolini?
Monsignor Nicolini era una persona fuori dal comune. Un uomo di straordinaria dolcezza, per lo meno nei rapporti con la mia famiglia. Era l’incarnazione dell’innocenza. Consideri che conservava lui le carte di identità autentiche di tutti noi (ebrei nascosti ad Assisi). Le teneva in una nicchia nel muro sopra la sua scrivania, al riparo d’una tendina. Se un giorno – Dio guardi! – i tedeschi avessero effettuato una perquisizione saremmo stati tutti fritti. Eppure lui era così, tranquillissimo. E aveva sempre dei piccoli pensieri. Quando andavamo a trovarlo ci preparava una bottiglietta d’olio o, non so, dei panini. Era estremamente familiare. E poi anche lui era veneto (trentino per la precisione – ndr) e coi miei genitori poteva parlare in dialetto. Questo fatto li ha molto uniti. Dopo aver lasciato Assisi (nel 1966 si ritirò a Villazzano, il suo paese natale, ma il successore fu nominato solo nel 1973, dopo la sua morte, e così Nicolini mantenne il titolo di vescovo d’Assisi fino all’ultimo – ndr) vi fece ritorno una volta e fu ospitato dalle suore di San Giuseppe (benedettine, come benedettino era il vescovo – ndr). Io andai a salutarlo. Non le dico l’accoglienza che mi fece. Subito ricordò mia madre, che era morta poco tempo prima. «La mia povera Margherita!», disse… Come se fosse uno di famiglia.

Gli abitanti di Assisi nel 1943-44 sapevano della presenza di ebrei in mezzo agli altri profughi?
Stavo giusto per farle questa precisazione. Se lei parla oggi con gli assisani, tutti sapevano. In realtà non lo sapeva nessuno. Lo escludo a priori. Noi facevamo la vita di tanti altri sfollati (e qui ce n’erano molti) e cercavamo di mimetizzarci. E poi, dico la verità, in quei momenti non facemmo conoscenza con molte persone. Frequentavamo coloro che era necessario, anche tra i normali cittadini. Cercavamo di tenere un basso profilo. Mio padre aveva tratti somatici semiti, così lui e mia madre quando facevano passeggiate preferivano andare verso la campagna. Mia sorella ed io, invece, andavamo ovunque normalmente, come tutti gli altri ragazzi. Io non credo che altri sapessero, oltre al vescovo, fra Rufino, don Aldo e i due tipografi Brizi.

Che possiamo dire del podestà Arnaldo Fortini?
Quello è un altro capitolo. Lui non faceva parte dell’organizzazione di aiuto agli ebrei. Viceversa quando si vide il pericolo farsi stringente, mio padre disse: «Tutti parlano bene dell’avvocato Fortini, che è persona influente. Io andrei direttamente da lui a dirgli chi siamo e che siamo nascosti qui, chiedendogli se può avvertirci in caso di pericolo». Ci andammo mia madre e io. L’accoglienza fu affettuosissima. «Per farvi stare più tranquilli – ci disse – farò una telefonata qui in vostra presenza per sentire se in Assisi vi sia sentore che vi sono nascosti degli ebrei». Chiamò non so quale pezzo grosso e poi ci comunicò: «Nessuno sospetta niente. In ogni caso, qualunque cosa ci fosse, io vi avvertirò». Non solo: si prese tutti gli oggetti religiosi che avevamo con noi e che ci potevano identificare e li nascose personalmente nel suo giardino.

Vi siete fatti un’idea anche del colonnello Valentin Müller?
Abbiamo sempre avuto un’ottima idea di lui. Lo vedevamo passare, ma naturalmente non abbiamo mai avuto alcun rapporto con lui. Quando tornò ad Assisi, a guerra finita, ci presentarono. Dopo la sua morte (avvenuta nel 1951 – ndr), Assisi mandò una piccola delegazione al cimitero del suo paese a portare un fascio di rami d’ulivo sulla sua tomba. Andammo anche io e mio marito e facemmo amicizia con la figlia, la nuora e i nipoti. I nipoti sono venuti spesso da noi anche a Roma. Sulla consapevolezza o meno del colonnello circa la presenza di ebrei ad Assisi aiutati dal vescovo loro non si sono mai pronunciati. Hanno chiesto a noi cosa ne pensassimo. Io personalmente sono convinta che lui avesse capito. Müller fu una persona molto positiva e irreprensibile. Per Assisi ha fatto tanto. Tutta la famiglia è in gamba. Alcuni anni fa è venuta qui ad Assisi la nuora, con due nipoti, in occasione di una celebrazione di quegli anni. Io sono andata a prenderla nel convento in cui risiedeva. Insieme abbiamo partecipato all’evento celebrativo a San Francesco, sedute una accanto all’altra in prima fila, anche se non avevamo alcuna voglia di metterci in mostra. È stato un momento molto emozionante. In fondo era come mettere accanto la vittima al persecutore, anche se, poveretto, il colonnello personalmente non è stato un persecutore. Comunque stava da quella parte.

Tra voi ebrei che eravate ad Assisi sono rimasti contatti?
Sì, soprattutto con quelli di Milano e Trieste, ma ormai sono quasi tutti morti. Gli unici rimasti «assisani» siamo stati noi Viterbi. E io non posso dire che bene di tutti quanti. La famiglia dell’avvocato Fortini, per esempio… Noi durante la persecuzione abbiamo conosciuto solo l’avvocato. Dopo la liberazione lui fu arrestato e mio padre scrisse una lettera in suo favore che contribuì alla scarcerazione. Fortini ci presentò la moglie e la figlia Gemma, che da allora è stata la mia più grande amica. Purtroppo è morta ormai da parecchi anni.

Il periodo assisano della famiglia Viterbi, tra l’autunno 1943 e la primavera 1944, è stato narrato di recente dalla sorella minore della signora Graziella in un agile libro di una novantina di pagine: Mirjam Viterbi Ben Horin, Con gli occhi di allora. Una bambina ebrea e le leggi razziali, Morcelliana, Brescia 2008

 

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