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Il Teatro degli oppressi in Egitto, una rivoluzione non violenta delle coscienze

di Elisa Ferrero
9 novembre 2015
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Nora Amin - scrittrice, attrice e regista teatrale egiziana - aveva sognato per anni di portare nelle strade egiziane il cosiddetto Teatro degli oppressi. Tuttavia, con Hosni Mubarak al potere, il sogno era sempre stato irrealizzabile, non solo perché il regime non tollerava che si affrontassero scottanti tabù sociali e politici, ma anche perché il semplice radunarsi in spazi pubblici era proibito dalle leggi dello stato di emergenza. Dal 2011 fare teatro nelle piazze è possibile e così...


L’esperienza che Nora Amin – scrittrice, attrice e regista teatrale egiziana – ha vissuto nel suo Paese, negli anni successivi alla rivoluzione del 2011, è di quelle che non lasciano indifferenti. L’ha raccontata lei stessa, sabato 31 ottobre, con parole e immagini, durante un incontro con gli studenti di lingua araba dell’Università Cattolica di Milano, organizzato dal professor Wael Farouq.

Nora Amin aveva sognato per anni di portare nelle strade egiziane il cosiddetto Teatro degli oppressi. Tuttavia, con Hosni Mubarak al potere, il sogno era sempre stato irrealizzabile, non solo perché il regime non tollerava che si affrontassero scottanti tabù sociali e politici, ma anche perché il semplice radunarsi in spazi pubblici era proibito dalle leggi dello stato di emergenza. E nemmeno la coscienza collettiva sembrava pronta a ricevere una simile esperienza. La rivoluzione del 2011, però, ha cambiato radicalmente le cose.

Fondato in Brasile da Augusto Boal nella seconda metà del Novecento, il Teatro degli oppressi nasce dalla constatazione che una persona vissuta lungamente sotto un regime dittatoriale non può liberarsi da quest’ultimo solo eliminandolo politicamente, perché avendone assorbito il pensiero e i comportamenti autoritari, ed essendo ormai assuefatta alla passività e alla sottomissione, non potrà far altro che riprodurne all’infinito, in maniera quasi automatica, i meccanismi dispotici e illiberali, sia in politica sia nelle relazioni della vita quotidiana. Il vero cambiamento democratico richiede invece una profonda trasformazione sociale che parta dalle menti e dalle coscienze di ciascuno. Il Teatro degli oppressi offre uno spazio dove questo cambiamento può avere inizio. Scendendo dal palcoscenico per occupare strade e piazze, annullando la distanza fra attori e pubblico, ricrea scene di oppressione quotidiana, nelle quali gli spettatori possono identificarsi. Poi, al culmine della storia, la rappresentazione si ferma e si chiede al pubblico di proporre soluzioni creative, rigorosamente non violente, ai drammi rappresentati. Anzi, si chiede loro di prendere il posto di uno degli attori per inscenare fisicamente le soluzioni proposte. Sperimentare di persona, seppur nella finzione scenica, una risposta creativa all’oppressione scatena il processo di «guarigione» dal pensiero autoritario, ridonando fiducia nella propria capacità di agire anche nella vita reale.

Con la caduta di Mubarak, Nora Amin ha capito che era il momento di realizzare il suo sogno. Nell’autunno del 2011, è finalmente riuscita a formare un gruppo di attori con i quali, per tre anni, ha girato l’Egitto in lungo e in largo, raccogliendo storie ed esperienze straordinarie, talvolta rischiando la vita. Una di queste storie – che Nora ha raccontato il 31 ottobre – riassume bene la forza di questa tecnica teatrale.

Una sera, Nora e i suoi attori si ritrovano a recitare nelle strade di Port Said, città sul canale di Suez dove le tensioni politiche sono altissime. Fra il pubblico c’è di tutto: feloul (sostenitori del vecchio regime di Mubarak), Fratelli Musulmani, cittadini ordinari, famiglie tradizionaliste, giovani progressisti, sniffatori di colla, moltissimi informatori della polizia in borghese e tanti baltaghiyya, teppisti di quartiere usati dai ricchi uomini d’affari e dal ministero degli Interni per i loro lavori sporchi. Basterebbe una piccola provocazione per causare una catastrofe. Lo spettacolo racconta di una coppia di innamorati che, senza motivo, vengono arrestati da un poliziotto e portati in commissariato. Lei viene rilasciata, mentre lui viene sbattuto in cella, dove fa la conoscenza di un giovane rivoluzionario che lo inizia al pensiero politico. Tempo dopo, sopraggiunge un poliziotto che comincia a pestare a morte il giovane rivoluzionario. Qui la narrazione si interrompe, passando la palla al pubblico; e qui accade l’inaspettato. Fra gli spettatori che chiedono di intervenire c’è anche un baltaghi. Evidentemente la narrazione l’ha punto sul vivo. Quante persone avrà picchiato, lui, nella sua vita? Ma il baltaghi fa paura, è l’incarnazione della violenza animale del regime. Perché vuole intervenire? Cosa vorrà fare?

Il Teatro degli oppressi, tuttavia, non si «impone» mai su chi vuol partecipare, altrimenti cadrebbe in un’altra forma di oppressione. Il baltaghi, dunque, è accolto sulla scena come gli altri. A una condizione: che abbandoni il suo coltello. Un principio irrinunciabile di questo teatro, infatti, è la non violenza. Il baltaghi esita: il coltello è tutta la sua vita, il suo unico mezzo di sostentamento, lui non esiste senza il suo coltello. Alla fine, però, lo posa ed entra in scena. Nei panni del suo personaggio, inizia una contrattazione per salvare la vita del giovane e non doverlo uccidere lui stesso. Negoziando, temporeggiando, riesce a dilatare il tempo fino al termine della rappresentazione. Infine, al momento di lasciare la scena, il baltaghi dimentica di riprendersi il coltello. Solo un istante, poi se lo ricorda, improvvisamente. Non è ancora pronto per un cambiamento radicale. Forse, però, qualcosa dentro di lui è irrimediabilmente mutato. Questa è la speranza del Teatro degli oppressi che, nonostante tutto, in Egitto continua la sua esperienza.

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