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In Afghanistan l’inverno fa strage di bambini

Elisa Pinna
6 marzo 2023
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Tra i disperati naufragati il 26 febbraio scorso sulla secca di Cutro (Crotone) c'erano anche dei migranti afghani. Un inverno rigidissimo, che sta mietendo molte vittime, e una povertà diffusa ci fanno capire perché fuggono dal loro Paese anche rischiando la vita.


In Afghanistan, è l’inverno più freddo e assassino dell’ultimo decennio. In un solo giorno, lo scorso 27 febbraio, riportano fonti ufficiali del regime talebano, sono morte 200 persone per ipotermia, un gelo da cui nessuno è riuscito a proteggerle. Non è stato un record: semplicemente è l’ultimo dato a disposizione. A una cifra giornaliera di questo genere, probabilmente sottostimata vista la morfologia del territorio e delle sue tante valli isolate, vanno aggiunte le vittime di polmoniti, malattie respiratorie, denutrizione. Quante? Nessuno è in grado di calcolarle. Tra di loro però – riferiscono le poche ong che ancora operano nel Paese – i più sono bambini, fragili e poverissimi.

L’inverno non è che l’ultimo anello di una catena tragica di eventi: alcuni naturali, come il terremoto del 2022 – che ha raso al suolo interi villaggi e cittadine, provocando migliaia di vittime –, o la prolungata siccità della scorsa estate. Dietro, tuttavia, vi sono guerre, violenze, terrorismi pluridecennali, l’ingloriosa fuga degli americani nell’agosto 2021, il ritorno dei talebani e le loro scelte sciagurate, tra cui – ultima in ordine di tempo – quella di proibire alle donne afghane di lavorare nelle organizzazioni umanitarie. È stata una decisione, presa a fine 2022, che ha inceppato la macchina degli aiuti e dei soccorsi nel momento in cui sarebbe più servita, cioè durante l’inverno, la stagione più spietata. Nonostante settimane di negoziati avviati dagli operati umanitari, la dirigenza talebana si è mostrata irremovibile. Alcune ong hanno lasciato il Paese per protesta. Altre sono rimaste, per non abbandonare milioni di bisognosi, ai limiti della sopravvivenza. Senza collaboratrici donne, le loro capacità di raggiungere capillarmente la popolazione si sono tuttavia ridotte.

A ciò bisogna aggiungere che i finanziamenti umanitari si stanno prosciugando. Diverse nazioni, anche europee, hanno chiuso i rubinetti degli aiuti, per rappresaglia contro un regime che nega alla popolazione femminile i diritti più elementari, come il diritto allo studio e il diritto al lavoro. L’Afghanistan è così ulteriormente sprofondato nell’abisso di una crisi umanitaria che si era aperta già nel 2021, dopo il ritiro delle truppe occidentali. Con il ritorno dei talebani al potere, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno imposto durissime sanzioni che hanno messo in ginocchio il sistema bancario afghano, congelato beni afghani all’estero, provocato l’impennata dei prezzi del cibo e dei beni di prima necessità, e riempito gli ospedali di bambini malnutriti.

Oggi, su una popolazione di 40 milioni di afghani, circa la metà rischia la vita perché non ha più alcuna sicurezza alimentare, afferma un recente rapporto dell’Onu. Sei milioni di afghani vivono già in una situazione di carestia e il freddo dell’inverno ha innescato tragedie sempre più gravi. Vi sono popolazioni irraggiungibili, perché mancano mezzi finanziari o elicotteri di soccorso. Vivono in abitazioni – spesso baracche – lesionate dai sismi precedenti e dalla guerra, senza vetri alle finestre e protezioni contro il gelo. Quasi 250mila pecore e capre sono morte per il freddo – secondo dati ufficiali – nelle ultime settimane, infliggendo un ulteriore colpo letale alla misera economia dei contadini e dei pastori afghani. In questa situazione, è ripresa la grande fuga di una parte della popolazione verso le maggiori città, dove si spera di trovare almeno qualche aiuto umanitario, o verso destinazioni più lontane, l’Iran ed oltre, nelle grandi rotte dell’emigrazione. Non è un caso che tra i disperati naufragati il 26 febbraio scorso sulla secca di Cutro (Crotone) ci fossero anche afghani.

Due inviati del New York Times si sono recati di recente in una delle regioni più povere e colpite di tutto il Paese, il distretto del Qadis, una cittadina in cui abitano 4mila famiglie, nel Nord-Ovest dell’Afghanistan. Ogni giorno, nell’ospedale locale si presentano una media di 500 persone, assiderate, colpite da polmonite ed altre malattie provocate dal gelo, ha spiegato ai giornalisti il direttore della struttura sanitaria, il dott. Zamanulden Hazi. Molti arrivano quando ormai non c’è più nulla da fare. Come un neonato di due mesi, morto pochi giorni fa tra le braccia del padre, Niaz Mohammed, che ha inutilmente cercato di scaldarlo in una notte in cui le temperature sono precipitate sotto lo zero e il gelo è penetrato rapidamente tra i muri crepati e i teli di plastica messi a protezione delle finestre. Persino le lacrime del bambino erano diventate di ghiaccio.

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