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Da secoli meticci a tavola

Giulia Ceccutti
7 ottobre 2022
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Da secoli meticci a tavola

Tra il Settecento e il Millecento le conquiste arabe in Asia, Africa ed Europa si accompagnarono a una vera e propria rivoluzione agricola che gradualmente introdusse nei tre continenti nuove colture e nuovi alimenti.


Una tesi affascinante, formulata nel 1974 e tuttora ritenuta valida – confermata com’è anche dalle innovative ricerche di archeobotanica degli ultimi vent’anni – evoca una rivoluzione silenziosa, fatta di condivisione di tecniche e saperi. In questo libro che si rivela di facile lettura anche per i non addetti ai lavori la illustra Andrew M. Watson, professore emerito di Economia all’Università di Toronto, esperto in storia dell’agricoltura medievale europea e islamica, nonché consulente in Giordania, Siria ed Egitto per vari enti.

Tra il Settecento e il Millecento, spiega l’autore, le conquiste arabe in Asia, Africa ed Europa si accompagnarono a una vera e propria rivoluzione agricola che gradualmente introdusse nei tre continenti nuove colture rinvenute dagli arabi in India e, in alcuni casi, nelle terre conquistate all’Impero Sasanide (dove a loro volta erano arrivate dall’India). Nel caso dell’Europa, il passaggio avvenne tramite le estreme regioni meridionali, come l’Andalusia e la Sicilia: è il caso, ad esempio, degli agrumi, del riso asiatico e dell’albero del carrubo.

La lista delle piante importate e acclimatate nei nuovi ambienti contestualmente alla diffusione dell’islam è sorprendente, perché si tratta di vegetali a noi familiari «da sempre»: dal riso al grano duro e al sorgo, dalla canna da zucchero a melanzane, spinaci, asparagi, limoni, banani… Watson individua diciassette colture (sedici di tipo alimentare e una, il cotone, produttrice di fibre) di cui riesce a ricostruire lo sviluppo, ma più probabilmente l’elenco dovrebbe includere centinaia di specie botaniche, tra cui anche fiori da giardino, piante ornamentali e piante spontanee.

«Il successo di tutte queste nuove colture fu incredibile», commenta l’autore. «Fu incredibile soprattutto se pensiamo che la loro diffusione avvenne su regioni estesissime nei soli primi quattro secoli dell’islam; che la maggior parte di queste piante, essendo nativa di regioni tropicali, fu coltivata in zone più fredde che richiedevano un processo di adattamento; che le piante produssero effetti rivoluzionari sull’intero sistema agricolo».

La trasmissione di nuove colture comportò significativi cambiamenti nelle tecniche agronomiche e innovazioni nel sistema dell’irrigazione. Di qui un incremento delle produzioni agricole, associato a un sensibile ritorno economico. A catena, si registrò un impatto rilevante sulle abitudini alimentari e di abbigliamento, la demografia, la crescita urbana e la distribuzione della forza lavoro, per citare solo le macro conseguenze.

La seconda parte del saggio di Watson cerca di rispondere alla non facile domanda sul perché e come sia avvenuta questa “rivoluzione”. Lo fa analizzando i maggiori fattori che, secondo le fonti disponibili, sembrerebbero averla facilitata.

Un primo veicolo di diffusione furono i viaggi (inclusi i pellegrinaggi) e il commercio. In secondo luogo, il lungo processo della creazione e allargamento della domanda, che in vari casi spostò l’interesse dall’ambito medico a quello della produzione di cibo (molte piante venivano infatti utilizzate inizialmente come rimedi naturali).

A tali elementi si unirono gli impulsi dati, nei vari contesti, dallo Stato – anche grazie a un ampio corpus legislativo sull’irrigazione e a una tassazione che incentivava gli investimenti privati – e dai proprietari terrieri.

Val la pena ricordare, in proposito, la presenza di aziende agricole di piccole dimensioni, spesso protagoniste nell’introdurre innovazioni: «A differenza dalle coeve civiltà dove le grandi proprietà detenevano quasi il monopolio della produzione agricola, al tempo delle conquiste l’islam presentava molto spesso parcelle frazionate di dimensione più piccola (…). Avevano superfici molto ridotte ma risultavano abbondantemente irrigate e furono i luoghi in cui molte delle nuove colture vennero introdotte e le nuove tecniche agronomiche applicate».

Infine, contribuirono alla rivoluzione agricola la conversione di numerosi giardini reali in giardini botanici e la notevole mobilità di contadini e braccianti: «I contadini yemeniti, della provincia di Hejazi, persiani, iracheni e siriani, che migrarono verso Ovest per stabilirsi in Egitto, nel Maghreb e in Spagna, potrebbero aver portato con sé le nuove colture e le nuove pratiche agricole. Per quanto sappiamo dallo studio delle tecnologie industriali, pratiche difficilmente replicabili si diffusero con la migrazione di coloro che le possedevano, e solo con grande impegno vennero apprese da altre genti».

In conclusione, l’ipotesi di ampio respiro delineata da Watson ha il merito di colmare un vuoto negli studi sulla storia dell’agricoltura del mondo islamico, facendo luce su un periodo poco esplorato. Traccia inoltre un nuovo modo di pensare l’impatto della migrazione degli arabi nell’area mediterranea e invita a decentrare l’Europa, identificandola come una «propaggine occidentale di una ben più vasta entità politica le cui comunicazioni interne si rivelarono epocali».

Oltre che riproporre l’interessante saggio originale di Watson, che uscì per la prima volta nel 1974 in The Journal of Economic History (e fu ripubblicato in volume nel 1983 dalla Cambridge University Press, con il titolo Agricultural Innovation in the Early Islamic World: The Diffusion of Crops and Farming Techniques, 700-1100), questo libro presenta altri tre contributi, che forniscono altrettante chiavi di lettura, utili per collocare l’influenza esercitata dalla ricerca di Watson sia all’interno del dibattito sulla storia dell’agricoltura che in altri ambiti disciplinari, come ad esempio la botanica economica e la storia islamica medievale.

Degne di nota anche le analisi sull’attuale agricoltura globalizzata riportate nell’ultimo capitolo, a firma della storica dell’ambiente Roberta Biasillo. Passando attraverso la trasformazione dell’agricoltura in agribusiness negli ultimi due secoli, la distruzione del suolo e la necessità di una vera biodiversità, vengono lasciati al lettore – anche in veste di consumatore – la riflessione sull’urgenza di una «nuova rivoluzione agricola» e su come intendiamo immaginare il futuro del nostro pianeta.


Andrew M. Watson
La rivoluzione agricola araba
Tra Settecento e Millecento, alle radici di ciò che mangiamo oggi
Slow Food Editore, 2022
pp. 156 – 14,50 euro

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