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I confini della libertà di stampa in Giordania

Laura Silvia Battaglia
3 maggio 2021
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Dopo la congiura di palazzo del 4 aprile scorso ad Amman i media giordani si sono allineati alle direttive del governo. Le limitazioni alla libertà di stampa in Giordania non sono però nulla di nuovo. Se ne parla almeno dalle rivolte del 2011, quando vennero oscurati centinaia di siti.


Qualsiasi cosa sia accaduta in Giordania all’inizio del mese scorso – un colpo di Stato, un tentativo di sedizione o una famiglia reale troppo zelante che cerca di sradicare l’opposizione interna – una cosa è chiara: i cittadini giordani saranno sempre gli ultimi a saperlo. Se una vittima c’è, di sicuro è la libertà di stampa. Non bisogna però dirlo a voce troppo alta perché, si sa, la Giordania è un «Paese cruciale per la sicurezza e gli interessi dell’Occidente».

Quanto è accaduto ad Amman merita attenzione e più di un dibattito. L’ondata d’intrighi di palazzo che si è riversata sotto gli occhi del pubblico il 4 aprile scorso con gli arresti domiciliari dell’ex principe ereditario Hamzah e la detenzione di altre 18 persone è stata risolta con un impegno pubblico di lealtà al re da parte del principe-fratellastro solo due giorni dopo, il 6 aprile. La notizia del complotto potenzialmente sedizioso è apparsa per la prima volta sul Washington Post. Subito dopo, le registrazioni video del principe Hamzah sono state condivise dalla Bbc. Successivamente, Axios, con sede negli Stati Uniti, ha rivelato i dettagli del «funzionario dell’intelligence israeliana» a cui il principe Hamzah era presumibilmente associato, e infine Middle East Eye, con sede nel Regno Unito, ha pubblicato la registrazione audio trapelata dell’incontro tra il principe Hamzah e il capo di stato maggiore militare della Giordania. Completamente assenti dalla discussione erano i media giordani: un silenzio assordante, corroborato dal divieto, di alcuni giorni dopo, di coprire e approfondire in alcun modo la notizia.

I media giordani invece di pubblicare fughe di notizie, analisi o indagini, hanno ripreso alla lettera le linee ufficiali del governo, con titoli come Il complotto è stato stroncato sul nascere, associati a immagini dell’esercito giordano e di bandiere svettanti. Quanto accaduto in questo frangente è solo la punta dell’iceberg: le limitazioni alla libertà di stampa in Giordania sono un affare vecchio, e risalgono, sul breve periodo, quantomeno dal 2011, quando, in concomitanza con la repressione delle rivolte di piazza, vennero oscurati centinaia di siti. Una misura che non è stata applicata solo verso i Fratelli Musulmani e i loro organi di stampa, ma anche nei confronti di comunisti, liberali e di giornalisti noti e indipendenti che criticavano, anche in modalità ragionevole e propositiva, la Corona hashemita. Ora, però, è stata superata una linea rossa. Mohammed Shamma, corrispondente di Reporter senza frontiere (Rsf), lo dice senza peli sulla lingua al media inglese The New Arab: «Questo è il momento peggiore in assoluto per i media in Giordania. L’assenza di copertura mediatica locale sulla vicenda del principe Hamzah è il sintomo più chiaro della portata delle violazioni che i media e la libertà di stampa subiscono in questo Paese, in particolare dall’inizio della pandemia».

In effetti, dal 2020, il governo ha assunto poteri di emergenza che ha utilizzato anche per limitare le proteste pubbliche, in particolare sul caso della chiusura del sindacato degli insegnanti nel luglio del 2020 o anche riguardo a casi particolarmente brutali di violenza domestica che investivano migranti dall’africa sub-sahariana. Peggio è andata ai giornalisti: nell’aprile 2020, il direttore e l’editore del canale televisivo giordano Roya sono stati arrestati, dopo che l’emittente aveva mandato in onda un’intervista con giordani disoccupati che si lamentavano delle misure draconiane imposte con il confinamento sanitario. Il risultato complessivo di questo clima è che, per evitare l’arresto o la chiusura del giornale, o per paura di potere essere perseguiti ai sensi della legge sulla criminalità informatica, giornalisti ed editori adesso si impegnano regolarmente nell’autocensura preventiva, con comitati di redazione che indirizzano i reporter verso determinate fonti, sapendo che esse sono allineate al governo.

Come altri operatori dell’informazione giordani, Mohammed Shamma, di Rsf, si è sentito molto frustrato per non essere stato in grado di raccontare gli eventi in corso nel proprio Paese, potendo solo aspettare che le informazioni sui dettagli e le ragioni delle misure nei confronti del principe Hamzah arrivassero dalla stampa straniera. In questa vicenda, al danno si è aggiunta la beffa quando il vice primo ministro giordano Ayman Safadi ha rilasciato delle dichiarazioni alla stampa estera lo stesso giorno in cui sul tema ha promulgato la censura ai media locali. Non stupisce dunque che quest’anno la Freedom House abbia declassato la Giordania da Paese con «parziale libertà di stampa» a Paese «non esente da atti di censura».

Del resto, come afferma Saud al-Sharafat, fondatore e direttore dello Shorufat Center for Globalization and Terrorism Studies, nonché esperto di media locali, «non c’è una copertura critica degli eventi in Giordania, perché i media sono storicamente controllati da agenzie statali, in particolare dai servizi di intelligence». Resta da capire perché di questo si stenti a parlarne apertamente, essendo il segreto di Pulcinella. Una delle risposte correnti da parte di direttori e giornalisti è che «bisogna sentirsi in dovere di proteggere la stabilità del Paese».

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