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Stati Uniti e filo-iraniani, trattative sotto banco

Laura Silvia Battaglia
2 novembre 2020
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In piena campagna elettorale, la Casa Bianca lavora alla liberazione di cittadini statunitensi prigionieri oppure ostaggi in Medio Oriente. Omaniti e libanesi nel ruolo di mediatori. Il momento è propizio, primi risultati.


Ci voleva l’ultima fase della campagna per le presidenziali negli Stati Uniti per sbloccare una situazione cristallizzata da anni, liberare ostaggi e avvicinare – cosa formalmente incredibile a dirsi – i ribelli dello Yemen settentrionale, i filo-iraniani Houthi che predicano «Morte all’America!», al presidente in carica Donald Trump.

È successo tutto nei giorni scorsi, nei quali l’amministrazione Trump, su più livelli, si è impegnata tenacemente in negoziati in Medio Oriente, con attori vicini all’Iran. E questo è accaduto anche in Siria, con il cui governo da dieci anni Washington non parla in via ufficiale. L’effetto più macroscopico di questi negoziati è la liberazione di due cittadini americani da anni detenuti dagli insorti Houthi vicini all’Iran. I due, già rimpatriati, si chiamano Sandra Loli e Mikael Gidada. La prima, operatrice umanitaria, è stata prigioniera per tre anni delle milizie; il secondo, un uomo d’affari, per un anno. Anche per un terzo cittadino americano, Bilal Fateen, è previsto il rilascio e il successivo rimpatrio.

La liberazione è frutto di uno scambio di prigionieri: in questo caso si tratta di 271 miliziani Houthi detenuti in Oman, che sono stati liberati e sono già ritornati nella capitale del Nord del Paese, Sana’a, per via aerea. Il negoziato è il primo successo ufficiale in politica internazionale del nuovo sultano dell’Oman, Haitam bin Tariq, salito qualche mese fa al trono dopo la morte dell’amatissimo Qaboos, e si pone in continuità con la linea del suo predecessore: Paese cuscinetto nelle relazioni tra le monarchie e le altre realtà regionali del Golfo, l’Oman è il luogo per eccellenza dei negoziati e ha incassato, in questa occasione, un grazie incondizionato tanto dagli Stati Uniti quanto dal portavoce degli Houthi, Mohamed Abdel Salam. Liberare i tre americani non era un compito facile, ma questa azione diplomatica si è inserita nel solco della mediazione Onu tra le parti coinvolte nella guerra in Yemen. Riyadh, la capitale saudita, aveva già subito forti pressioni da parte di Washington perché facilitasse il buon esito della trattativa yemenita.

I contatti dell’amministrazione americana in Medio Oriente con gli alleati dell’Iran non finiscono qui. Secondo la stampa statunitense, Kash Patel, vice assistente di Trump e principale funzionario dell’antiterrorismo della Casa Bianca, si è recato di persona a Damasco nei mesi scorsi per colloqui con le autorità siriane, i primi di alto livello dal 2012, nel tentativo di ottenere il rilascio di almeno due americani detenuti dal governo siriano: lo psicologo Majd Kamalmaz e il giornalista Austin Tice. Proprio Trump aveva inviato una lettera personale al presidente Bashar al Assad nei mesi scorsi invitandolo a un negoziato. E secondo diverse fonti, da Damasco avevano chiesto come contropartita il ritiro delle truppe americane dal Nord-Est siriano, ricco di risorse energetiche e confinante con l’Iraq. Per aumentare la pressione negoziale, Washington aveva poi varato un nuovo pacchetto di sanzioni dirette contro Damasco, finendo per acuire la già drammatica situazione di un Paese in guerra da dieci anni.

In questa intensa fase elettorale americana, anche l’altro alleato degli Usa in Medio Oriente, Israele, è stato chiamato a rispondere alle richieste della Casa Bianca per sbloccare un impasse negoziale con il Libano, dominato politicamente e militarmente dagli Hezbollah filo-iraniani. Nei giorni scorsi sono cominciati così inediti colloqui tra Israele e Libano, mediati dagli Usa, per la delimitazione delle frontiere marittime. Il dossier, discusso da dieci anni proprio con la continua mediazione di Washington, è visto con particolare urgenza dai leader libanesi, interessati a spartirsi la lucrosa torta dei ricavi per lo sfruttamento delle risorse energetiche al largo delle loro coste meridionali. In questa girandola di strette di mano tra rivali, emerge la figura del generale Abbas Ibrahim, capo dell’intelligence libanese e da anni deus ex machina di ogni trattativa sotto banco tra nemici. Ibrahim ha ammesso oggi di avere ottimi rapporti «di lavoro» con gli Stati Uniti e non ha mai nascosto di avere un canale diretto con i vertici di Hezbollah.

In Medio Oriente, ogni volta che ci sono ostaggi da liberare, le parti si rivolgono agli uffici di Ibrahim, che solo un anno fa ha svolto un ruolo cruciale nel rilascio, dalla Siria, di un altro ostaggio americano. Nei giorni scorsi Ibrahim era a Washington, fino a quando il segretario di Stato americano Mike Pompeo e il presidente libanese Michel Aoun, hanno avuto un colloquio telefonico durante il quale sono stati annunciati nuovi aiuti americani al Libano.


 

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).

Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

 

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