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Mashrou’ Leila, la Chiesa maronita censura la band

Laura Silvia Battaglia
8 agosto 2019
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Dopo la cancellazione di un concerto del più celebre gruppo musicale libanese, per l’opposizione della gerarchia maronita, sorgono interrogativi sulla libertà di espressione in un Paese sempre in precario equilibrio.


È battaglia a suon di musica in Libano. Ma da qualche giorno anche a colpi di conferenze stampa, denunce legali e campagne pubbliche. Perché la cancellazione del concerto della band libanese Mashrou’ Leila al festival della città di Byblos (in programma il 9 agosto), dopo che la band ha ricevuto accuse di blasfemia da parte delle autorità della locale Chiesa cattolica maronita, sta diventando un caso nazionale, un terreno di scontro tra religiosi e laici, ma anche tra diverse generazioni. La ragione addotta dagli organizzatori del festival è «prevenire scontri violenti e mantenere sicurezza e stabilità». Ma sia per la band – nota per i messaggi musicali forti su temi tabù nel mondo arabo, come l’omosessualità – sia per i suoi fan, questa decisione è apparsa incomprensibile. Non è la prima volta che i Mashrou’ Leila – orma la band libanese più famosa al mondo e la prima per ascolto di brani in Occidente – si esibiscono al festival di Byblos. Come non è la prima volta che questa band riceve minacce o viene definita blasfema. Ma è la prima volta che le posizioni della Chiesa locale vengono prese in così grande considerazione da un festival importante.

Ziad Hawat, già sindaco della città e oggi parlamentare, ha così argomentato: «La decisione è stata presa per preservare l’immagine di Byblos e il suo ruolo nel rispettare la religione e i nostri valori». E ha aggiunto che non esiste altro motivo politico o settario dietro questa decisione. La band non ha commentato, se non con una dichiarazione in cui ha ribadito l’intenzione di suonare in pubblico e di non cancellare il concerto. Sta di fatto che il concerto non s’ha da fare e il clima è diventato rovente.

Padre Abdo Abu Kasm, portavoce del Centro di informazione cattolico, ha dichiarato tramite l’emittente radio Voice of Lebanon che è pronta un’azione legale contro la band: in particolare, viene contestato ai Mashrou’ Leila un comportamento blasfemo contro la religione e la fede cristiane nei versi di due canzoni – Djiin e Asnam – e in una serie di meme condivisi sulla pagina Facebook personale da Hamed Sinno, frontman e cantante della band. I musicisti (tranne Sinno che vive a New York) sono già stati interrogati per sei ore da funzionari della sicurezza nazionale libanese, che rispondono direttamente al presidente e al primo ministro.
Secondo la televisione di Stato libanese, è stato richiesto ai Mashrou’ Leila di rimuovere le canzoni incriminate da tutte le loro piattaforme ed è stato richiesto un atto pubblico di ammenda.

Ma nulla al momento è accaduto, se non che una band metal olandese, i Within Temptation, ha cancellato il suo concerto a Byblos in solidarietà con i colleghi libanesi e in nome «della tolleranza e della libertà di parola e di espressione». Undici ong locali e internazionali, tra cui Amnesty International, hanno da poco promosso una campagna contro l’incitamento all’odio e violenza, appellandosi al procuratore generale e alla Corte di cassazione locali, contro padre Abdo e il Centro di informazione cattolico.


 

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).

Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

 

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