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È crisi politica. Israele va alle urne

di Giorgio Bernardelli
3 dicembre 2014
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Fermi tutti, si va alle elezioni. Israele si avvia ancora una volta al rito del voto anticipato, dopo che ieri il primo ministro Benjamin Netanyahu ha licenziato Yair Lapid e Tzipi Livni, i due ministri moderati della sua coalizione. Ora il premier punta a ottenere un ampio consenso dagli elettori, che saranno chiamati alle urne il 17 marzo 2015.


Fermi tutti, si va al voto. La ratifica della Knesset è arrivata in mattinata: Israele si avvia ancora una volta al rito delle elezioni anticipate. È stato personalmente il primo ministro Benjamin Netanyahu a prendere l’iniziativa «licenziando» Yair Lapid e Tzipi Livni, i due ministri moderati della sua coalizione. Il leader del Likud punta ad andare alle urne al più presto – il 17 marzo 2015 – con l’obiettivo di uscirne rafforzato. Ed è un epilogo annunciato ormai da mesi.

Da tempo infatti era caduto il presupposto politico su cui si fondava questo terzo governo Netanyahu, cioè l’alleanza anomala tra HaBayit haYehudi (La casa ebraica), il partito della destra nazionalista dei coloni guidato da Neftali Bennet, e Yesh Atid (C’è futuro), il partito laico guidato da Yair Lapid, il vero vincitore delle elezioni del 2013. Era stata l’alleanza tra queste due forze politiche – ai danni dello Shas e dell’Utj, i due partiti religiosi – a rendere possibile la nascita di un governo estremamente eterogeneo all’indomani di un appuntamento elettorale finito sostanzialmente con un pareggio tra falchi e moderati. Una coalizione che sarebbe potuta durare forse in tempi normali, ma che – nel momento in cui la questione del conflitto coi palestinesi è riesplosa in tutta la sua drammaticità – alla fine ha presentato il conto delle sue tante contraddizioni interne. La stessa questione della legge sulla «nazione ebraica», su cui tanto si è discusso nei giorni scorsi, in realtà rientrava già nelle grandi manovre pre-elettorali. Una legge slogan, ideale per racimolare consensi a destra e porre Lapid e Livni davanti a un ultimatum: o adeguarsi al nuovo asse Netanyahu-Bennet (e firmare così il proprio definitivo suicidio politico) oppure dichiarare chiusa la stagione di questo governo.

Adesso, dunque, tutto si ferma per tre mesi, compresa ovviamente la contestata legge sulla «nazione ebraica» (che probabilmente dopo le elezioni non sarà più una priorità). Intanto Netanyahu rimane in carica con pieni poteri anche sul bilancio: per questo ha tolto la delega a Lapid. Dall’aria che tira sui giornali, comunque, non c’è affatto entusiasmo in Israele per questo voto. Sostanzialmente sarà un referendum su Netanyahu, senza però una vera alternativa all’orizzonte. I sondaggi pubblicati in queste ore danno il Likud sostanzialmente stabile, mentre guadagnerebbe qualche seggio il partito di Bennet (anche se va ricordato che pure alla vigilia delle elezioni del 2013 i sondaggi davano a questa forza politica più voti di quelli che poi prese davvero). Sul fronte opposto si annuncia un tracollo per Lapid e Livni, ma non sarà a beneficio dei laburisti di Herzog. Perché l’unica vera novità sarebbe l’irrompere dell’ennesimo nuovo partito centrista della politica israeliana: non ha ancora un nome ma basta da solo un volto ad accreditargli una decina di seggi sui 120 della Knesset. Il volto è quello di Moshe Khalon, altro esponente del Likud entrato da tempo in rotta di collisione con Netanyahu. La popolarità di Khalon deriva dal fatto che quando fu ministro delle comunicazioni adottò una serie di provvedimenti contro gli interessi delle compagnie telefoniche; da allora è considerato un paladino dei consumatori. Potrebbe andare a intercettare quell’elettorato più interessato alle questioni interne alla società israeliana che all’eterno scontro su colonie e diplomazia internazionale. Che poi – in fondo – è lo stesso elettorato che nel 2013 votò Lapid, salvo poi finire ai margini dentro il governo.

Come sottolinea nel suo editoriale di oggi Nahum Barnea – comunque -, al di là di numeri, schieramenti e previsioni, il dato di fondo resta la disaffezione degli israeliani per questi giochi di potere. La vera sfida sarà portare la gente a votare, sostiene Barnea. Perché in fondo questo scioglimento della diciannovesima Knesset (al termine della seconda legislatura più breve della storia del moderno Stato di Israele) non fa altro che confermare quanto anche quella che ama proclamarsi l’unica vera democrazia del Medio Oriente viva oggi in maniera molto seria la crisi della sua rappresentanza politica.

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