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Platone, i palestinesi e la Shoah

di Giorgio Bernardelli
30 aprile 2014
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In questi giorni in Medio Oriente si è parlato molto del tema della Shoah in coincidenza con il 27 nisan, la data ebraica del Giorno della memoria. E hanno fatto notizia - in particolare - le dichiarazioni di Abu Mazen sulla Shoah, definita dal presidente palestinese il crimine più odioso contro l'umanità nell'età moderna. Al di là delle parole, per il popolo palestinese, quello dell’Olocausto resta un argomento scottante e scomodo.


In questi giorni in Medio Oriente si è parlato molto del tema della Shoah in coincidenza con il 27 nisan, la data ebraica del Giorno della memoria (data significativamente non legata al campo di concentramento di Auschwitz, ma alla rivolta del Ghetto di Varsavia). E hanno fatto notizia – in particolare – le dichiarazioni di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) sulla Shoah, definita dal presidente palestinese il crimine più odioso contro l’umanità nell’età moderna. Parole che sono state passate ai raggi x per il loro significato politico, soprattutto nella fase così travagliata che le relazioni tra israeliani e palestinesi stanno attraversando in queste settimane.

Come sempre credo che ci sia un grosso pericolo: quello di fermarsi solo alla politica, senza fare i conti davvero con il tema dell’Olocausto. Che resta invece di per sé un tema cruciale per leggere il Medio Oriente di oggi e provare a risanare almeno qualcuna delle sue ferite. Per questo motivo mi sembra interessante rilanciare qui due articoli usciti in queste ore: come vedrete apparentemente non sono legati alle parole di Abu Mazen, ma forse proprio per questo rappresentano il filtro migliore per valutare che cosa c’è e che cosa manca ancora nelle discussioni che riempiono le pagine dei nostri giornali.

Il primo articolo lo ha scritto su The Atlantic Zeina Barakat, palestinese, dottoranda di ricerca in storia. Zeina è una dei protagonisti di una vicenda di appena qualche settimana fa: il primo viaggio della memoria di un gruppo di studenti palestinesi ad Auschwitz, organizzato dal professor Mohammed Dajani, dell’università al Quds di Gerusalemme. È un’altra vicenda di cui si è parlato parecchio anche perché quando Dajani e i suoi studenti sono rientrati in Palestina sono stati accolti da un coro feroce di critiche. Al punto che la stessa università al Quds ha preso le distanze dal gesto, affermando che si è trattato di un’iniziativa personale del professore. Tutto questo ha portato molti a pensare: vedete che non cambia mai nulla?

In questo articolo, invece, Zeina ha il coraggio di prendere posizione raccontando il percorso che c’era dietro quel viaggio e rilanciando il valore dell’iniziativa. E – soprattutto – per descrivere il problema del rapporto dei palestinesi con la Shoah utilizza un’immagine molto famosa: quella del mito della caverna di Platone. Mito che parla di un gruppo vissuto sempre dentro una caverna voltando le spalle alla sua entrata e guardando il mondo esterno solo attraverso le ombre proiettate sulla parete dalla luce del fuoco che illumina solo quell’ambiente angusto. Andando ad Auschwitz siamo usciti dalla caverna – dice Zeina – e abbiamo visto la Shoah con gli occhi di chi sta fuori. Ma adesso che siamo tornati in Palestina, esattamente come nel mito di Platone, chi è rimasto dentro non crede a quanto raccontiamo e pensa che la realtà siano comunque le ombre che vede sulla parete.

Si tratta di un’immagine molto forte e molto coraggiosa, che spiega bene quale sia la portata del dibattito sulla Shoah, che non bastano certo due frasi di Abu Mazen in Palestina a chiudere. C’è bisogno di una disponibilità ad allargare il proprio orizzonte, per capire davvero il dolore dell’altro. Ed è un percorso che chiede scelte significative dal punto di vista educativo molto più che dichiarazioni ad effetto. Proprio quei percorsi educativi di cui l’iniziativa del professor Dajani è il simbolo (ma che Abu Mazen non ha avuto il coraggio di citare nella sua «storica» dichiarazione).

Però il mito della caverna in relazione alla Shoah è un’immagine che non vale solo per la Palestina. E non ho potuto fare a meno di pensarci leggendo su Al Monitor l’articolo che rilancio qui sotto, dedicato al dibattito sul progetto ministeriale di introdurre la didattica della Shoah anche nelle scuole materne in Israele. Notizia intorno alla quale rimango parecchio perplesso. Parlare di questo tema a bambini di quattro o cinque anni a me sembra molto la costruzione di un’altra caverna fatta di ombre. Un modo per istillare, come esperienza primordiale della vita, l’idea di un nemico che è contro di te e da cui devi difenderti.

Uscire dalla caverna. Ce n’è un gran bisogno sia in Israele sia in Palestina. Per guardarsi davvero in faccia e non continuare a rimanere comunque schiavi delle ombre.

Clicca qui per leggere il racconto di Zeina Barakat

Clicca qui per leggere l’articolo sulla Shoah nei curriculum delle scuole materne

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