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Il patriarca Sako: «Per l’Iraq urge politica, non solo aiuti umanitari»

Manuela Borraccino
27 giugno 2013
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Il patriarca Sako: «Per l’Iraq urge politica, non solo aiuti umanitari»
Il patriarca caldeo Louis Raphael Sako.

Per il patriarca caldeo mons. Louis Raphael Sako «quel che serve oggi in Medio Oriente non è aiuto materiale ma appoggio politico, diplomatico, spirituale: l’intera regione è un vulcano in ebollizione». All’indomani delle stragi che hanno provocato la morte di 41 persone e 125 feriti in diverse città dell’Iraq, il presule chiede alle agenzie cattoliche «sostegno per elaborare un programma politico» che salvi il Paese dal caos in cui è sprofondato.


(Roma) – Per il patriarca caldeo mons. Louis Raphael Sako «quel che serve oggi in Medio Oriente non è aiuto materiale ma appoggio politico, diplomatico, spirituale: l’intera regione è un vulcano in ebollizione». All’indomani delle stragi che hanno provocato la morte di 41 persone e 125 feriti in diverse città dell’Iraq, il presule chiede alle agenzie cattoliche «sostegno per elaborare un programma politico» che salvi il Paese dal caos in cui è sprofondato.

Beatitudine, in Iraq ci sono stati più di duemila morti in meno di tre mesi. Come legge questa nuova ondata di violenza?
Il fatto è che l’intero Medio Oriente oggi è un vulcano in ebollizione: basti vedere quel che accade in Siria, Libia, Egitto, Golfo persico. In Iraq la sicurezza è ancora lontana: continuano a esserci attentati terroristici in molte città, nessuno sa come difendersi. Prima era Al Qaeda. Ora nell’intera regione è in corso una lotta confessionale tra sunniti, sciiti e tra altri  soggetti che vogliono il potere e il controllo dell’economia e del petrolio.

A dieci anni dalla caduta di Saddam, che prospettive vede per i suoi fedeli?
I cristiani hanno paura, e noi pastori non abbiamo più le parole per consolarli o per trattenerli. Le famiglie cristiane sono divise, ormai la metà dei nuclei sono all’estero e l’unico pensiero di chi resta è come raggiungerli. Come fermare quest’esodo? Non abbiamo soluzioni magiche, constatiamo che la disoccupazione e l’insicurezza per la propria vita e per quei pochi beni che restano in piedi impedisce di avere fiducia nel futuro. Ci sono qua e là semi di speranza, ma non sufficienti per convincere la nostra gente che domani andrà meglio, che vale la pena restare nel Paese e crescere i propri figli in Iraq. 

Che aiuto ha chiesto alle agenzie di donatori nelle recenti riunioni in Vaticano?
In Iraq non abbiamo problemi economici: certamente c’è bisogno di assistere i profughi, di fornire aiuti umanitari come del resto in Siria. Ma per l’Iraq posso dire che non è un problema di aiuti materiali: il nostro è un Paese che potrebbe essere ricco e prospero. Quello che manca dall’estero è l’aiuto spirituale, politico, diplomatico. Se qualcuno vuole aiutarci, che ci dia una mano a trovare una soluzione per la stabilità, a costruire un’autentica cittadinanza con tutti i cittadini uguali davanti alla legge, e convivenza fra le varie comunità dei nostri Paesi, a far rispettare i diritti umani e gli accordi di riconciliazione. Quello di cui avremmo bisogno è l’appoggio politico, le pressioni sui nostri governi perché permettano ai cristiani non solo di restare nei nostri Paesi come cittadini di serie B ma di esercitare il nostro diritto di partecipare alla vita politica e sociale, di dare un contributo alla costruzione di autentiche democrazie. Abbiamo bisogno di appoggio umano, sociale, di una vicinanza che vada al di là dell’appoggio economico: il denaro costituisce un aiuto limitato nelle condizioni in cui ci dibattiamo oggi. Personalmente sono convinto che tutti gli sforzi debbano tendere a costruire la cittadinanza uguale per tutti, cristiani e musulmani, membri della stessa patria.

Lei ha incontrato il Papa subito dopo l’intronizzazione. Che impressioni ha tratto dall’incontro?
Papa Francesco è un segno di speranza: è un pastore che attrae tanta gente, i semplici e gli umili accanto ad altre persone che si sentono incuriosite dalla sua autenticità, e questo è molto positivo. È un testimone lucido della fede, e credo che voglia cambiare parecchie cose. Ma quello del papato, si sa, è un incarico pesante e difficile: penso che avrà bisogno di tempo, e di una buona squadra di consiglieri, per capire il contesto culturale, sociale, politico nel quale ci muoviamo, e la complessità e interdipendenza del mondo di oggi, soprattutto del Medio Oriente.

Qual è l’atteggiamento del governo iracheno verso le vostre richieste?
Abbiamo celebrato tre settimane fa, dopo quattro anni, il Sinodo caldeo, una grande esperienza di fraternità fra i 14 vescovi caldei (sono stati nominati altri quattro vescovi). Al termine abbiamo invitato a cena i membri del governo e le autorità dello Stato per condividere un momento di agape fraterna con noi. Sono uomini istruiti, formati all’estero, certamente hanno presente le nostre esigenze: credo che debbano essere aiutati nel realizzare queste nostre istanze. 

Ritiene che ci siano responsabilità da parte di alcuni predicatori nelle moschee nelle aggressioni che subiscono i cristiani?
Io penso che anche questo possa essere cambiato, perché tale è stata la mia esperienza a Kirkuk: dopo aver incontrato più volte i leader religiosi musulmani, ho visto cambiare nel tempo la loro predicazione riguardo ai cristiani, alle Crociate e alla nostra comune appartenenza al Paese. È molto importante il discorso religioso musulmano sulla convivenza, la fraternità, la collaborazione per la costruzione dello Stato: questo è ciò che va incoraggiato.
Ci sono i segni di speranza, ma manca il seguito: e il seguito non è questione di impegno di una sola persona. Ci vuole un quadro, un programma. Per questo ho chiesto alla Roaco (Riunione Opere Aiuto Chiese Orientali, un organismo eccelesiale di sostegno alle necessità delle comunità  cattoliche del Medio Oriente – ndr) di aiutarci ad istituire un corso di formazione politica, eventualmente anche a Roma: in Iraq abbiamo partiti e associazioni di cristiani, manca l’elaborazione di un quadro e di un programma politico, appoggiato anche dall’estero, per aiutarci a ricostruire il Paese.

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