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Altri atti vandalici firmati dai coloni

Fanny Houvenaeghel
8 febbraio 2012
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Altri atti vandalici firmati dai coloni
Veduta del monastero ortodosso della Santa Croce, a Gerusalemme Ovest. Sorge poco distante dal palazzo della Knesset.

Negli ultimi giorni a Gerusalemme e altrove in Terra Santa si sono registrati nuovi episodi di intolleranza e odio religioso, attribuibili, a quanto sembra, a coloni israeliani estremisti. Il fenomeno si allarga. Ma si fanno sempre più decise anche le condanne pubbliche e le prese di distanza di cittadini e autorità politiche e religiose.


(Gerusalemme) – «Morte ai cristiani», è il graffito che la mattina di ieri, 7 febbraio, padre Claudio, un religioso greco-ortodosso del monastero della Santa Croce, a Gerusalemme, si è ritrovato dipinto sulla carrozzeria della propria auto, insieme con alcune stelle di Davide e il nome dell’insediamento (israeliano) di Migron. Anche un’altra auto lì vicina era stata presa di mira: le gomme di entrambi i veicoli erano squarciate. Secondo la polizia l’episodio è da inquadrare nel fenomeno del price tag.

Qualcosa di analogo era accaduto anche domenica 5 febbraio. Intorno alle due di notte, quattro o cinque coloni – che alcuni testimoni hanno visto fuggire poi in direzione del vicino insediamento di Talmon Alef – hanno distrutto le finestre di un’abitazione, lacerato le gomme di un taxi, e disegnato numerosi graffiti sulla facciata di una casa, imbrattata con frasi come: «Morte agli arabi», «Vendetta», «Spazio militare chiuso», seguite dai nomi di varie colonie e avamposti israeliani nei Territori. Sui muri è stata anche disegnata una stella di Davide e pesanti insulti contro il profeta Maometto, che naturalmente suonano gravemente offensivi e intollerabili per gli abitanti musulmani dei villaggi palestinesi vicini (bisogna anche registrare che nella stessa giornata di domenica, altri coloni si sono fatti avanti per presentare le proprie scuse).

Simili episodi di vandalismo vanno ad aggiungersi alla lunga lista di azioni messe in atto da coloni israeliani fanatici in Cisgiordania, ma sempre più spesso anche sul versante israeliano, al di qua della linea verde (idealmente tracciata al termine della guerra del 1967).

Nel settembre 2011 è stata presa di mira anche una caserma israeliana con i veicoli che vi stazionavano. I vandali non erano palestinesi o membri di Hamas, ma coloni ebrei israeliani tra i più fanatici, che spesso «firmano» i loro atti di vandalismo con l’espressione Tag mehir (price tag, «il prezzo da pagare»). L’espressione, scelta oculatamente, sta ad indicare gli attacchi condotti dai coloni duri e puri, scontenti della politica del loro governo.

Inizialmente questi attacchi prendevano di mira esclusivamente i palestinesi, coi loro campi e abitazioni in Cisgiordania. I coloni si vendicano ogni volta che il governo di Israele dispone la demolizione di insediamenti illegali in Cisgiordania. In numerosi villaggi palestinesi non si contano più gli ulivi tagliati, sradicati o incendiati, né le case o gli automezzi dati alle fiamme. La maggior parte degli israeliani al corrente di queste azioni ha espresso condanna, si è cercato a lungo di parlarne a bassa voce o a passare questi fatti sotto silenzio. Oggi non è più così perché gli attacchi si sono moltiplicati e i vandali prendono di mira ormai anche veicoli e strutture dell’esercito, edifici religiosi e cimiteri in territorio israeliano.

Perché questa violenza? Per cercare di comprenderne le cause occorre risalire al periodo successivo alla Guerra dei sei giorni (1967). In quel frangente il governo israeliano incoraggiò la creazione di insediamenti ebraici nei territori conquistati nella penisola del Sinai, nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, sulle colline del Golan e a Gerusalemme est. Sospinti dai vantaggi fiscali e finanziari promessi, mumerosi israeliani risposero all’appello, dando vita a nuove colonie.

La svolta avvenne nell’estate 2005 a Goush Katif, un insediamento israeliano nell’estremo lembo sud-occidentale della Striscia di Gaza. Il governo guidato da Ariel Sharon dispose lo smantellamento di tutti gli insediamenti ebraici in quella fetta di terra: 8.500 coloni furono costretti, con la forza, a lasciare le case e i terreni che occupavano. Da quel momento in poi i rapporti tra il governo e il movimento dei coloni sono andati deteriorandosi.

Nel dicembre 2008, dopo un ordine di sgombro a Hebron, numerosi furono i soldati feriti (dai coloni) e parecchi gli atti di rappresaglia contro le famiglie arabe vicine. Il comportamento estremo dei coloni di Hebron fu condannato da gran parte degli israeliani e il primo ministro dell’epoca, Ehud Olmert, giunse a parlare di «pogrom» perpetrati dagli ebrei ai danni degli arabi. Parole forti, scelte con cura per scuotere gli animi.

Molto spesso tra i coloni campeggia l’effige di Meir Kahane, un rabbino estremista assassinato a New York nel 1990, ispiratore dei «giovani delle colline» (contrari a qualsiasi congelamento degli insediamenti). Il sogno di quel rabbino sionista era di portare a termine il progetto del Grande Israele biblico, la terra promessa al suo popolo quattromila anni fa.

Il primo ad aver incitato pubblicamente (i civili) ad azioni di rappresaglia è stato Itaï Zar, un israeliano che perse un fratello in un attentato del luglio 2008: «Ad ogni sgombero forzato, che si tratti di un autobus, d’una casa o di un camper, noi reagiremo», diceva.

Come si è comportato l’esercito di fronte a questa violenza?

Le relazioni tra le forze armate e i coloni estremisti sono ambigue. In non pochi casi la contiguità è accertata e parecchi resoconti denunciano la passività dei soldati davanti agli assalti dei coloni. Oltretutto i soldati schierati a difesa degli insediamenti sono spesso a loro volta dei coloni. Capita così che usino le armi a propria disposizione e la conoscenza del territorio per mandare a segno determinate azioni. Tuttavia l’esercito ha anche il compito di rimuovere gli insediamenti illegali. Quando ciò accade, i coloni non si fanno scrupolo di attaccare i militari e gli edifici di Tsahal (le forze armate).

La polizia viene sovente accusata di non condurre indagini rigorose e le persone sottoposte a interrogatorio sono spesso rilasciate per «insufficienza di prove». D’altronde non è sempre facile individuare i responsabili dei vandalismi. Costoro agiscono con estrema discrezione, si mimetizzano con la popolazione locale, indossano guanti per non lasciare impronte e, portati a termine i loro attacchi, evitano di lasciare sul posto accendini, bombolette spray o altri oggetti che potrebbero ricondurre a loro.

Si tratta, in definitiva, di una piccola minoranza di persone anche tra i coloni, ma se le loro azioni dovessero aumentare potrebbero rendere la situazione sul terreno ancora più esplosiva.

 


In seguito ai vandalismi registrati nella notte tra il 6 e il 7 febbraio presso il monastero della Santa Croce, a Gerusalemme, il Consiglio delle istituzioni religiose della Terra Santa (organo di coordinamento tra i capi delle varie comunità di credenti) ha emesso questo comunicato ufficiale: 

Gerusalemme, 7 febbraio 2012

Il Consiglio delle Istituzioni religiose della Terra Santa, condanna gli atti di profanazione e le scritte sul monastero greco-ortodosso di Gerusalemme, avvenuti la scorsa notte. Il Consiglio invita le persone di tutte le confessioni, cristiani, ebrei e musulmani, a rispettare tutti i Luoghi santi e gli spazi delle tre religioni, e deplora fortemente il comportamento degli estremisti che sfruttano o coinvolgono i Luoghi sacri in un conflitto politico e territoriale.

A nome del Gran Rabbinato di Israele, del ministero del Waqf e degli Affari religiosi dell’Autorità Palestinese e dei capi delle Chiese locali in Terra Santa

Il Consiglio delle istituzioni religiose della Terra Santa 

 

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