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Narwal e i suoi figli

Simone Esposito
1 febbraio 2011
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Narwal e i suoi figli

Quanto fa uno più uno? Gira intorno a questo interrogativo la storia di Jeanne e Simon, due giovani gemelli canadesi, figli di una donna di origine libanese che, morendo, svela loro un passato insospettato. "La donna che canta" è una tragedia persino inverosimile nei suoi sviluppi, ma assolutamente credibile. Un film riuscito, che approda agli Oscar 2011 nella cinquina per il miglior film straniero.


Quanto fa uno più uno? Gira intorno a questo interrogativo la storia di Jeanne e Simon, due giovani gemelli canadesi, figli di una donna di origine libanese che, morendo, svela loro un passato insospettato. Un passato che affonda le radici nella guerra civile libanese e nell’amore tra Narwal (futura mamma dei gemelli, cristiana) e un rifugiato palestinese. Un amore subito stroncato brutalmente ma che fa in tempo a generare una vicenda di morte e di vita lunga quarant’anni. C’è un padre, laggiù, ed è ancora vivo, a dispetto di quanto hanno sempre creduto i gemelli. E c’è persino un fratello. È quanto dice il testamento della madre, che chiede ai figli di ritrovare entrambi. Non è facile, per i due giovani, affrontare a viso aperto una storia che non si aspettavano e dalla quale sono cresciuti lontanissimi, tanto da non conoscere nemmeno la lingua della loro terra di provenienza. Ma saranno costretti a farlo: dal bisogno di rispettare la volontà della madre e soprattutto da quello di fare i conti con le proprie origini.

La donna che canta, quarto lungometraggio di Denis Villeneuve, sta decisamente stretto nel canone convenzionale del «drammatico». È in realtà una tragedia, letterariamente e drammaturgicamente, una tragedia persino inverosimile nei suoi sviluppi, ma assolutamente credibile proprio perché, quando si pigia con proprietà sul tasto del tragico, tutto diventa possibile. Anche il dolore sconfinato della giovanissima Narwal, che attraversa da sola il Libano in fiamme fino a fuggire a Montreal per morire ancora unica custode della sua storia. Jeanne e Simon dovranno fare il viaggio della madre a ritroso, per sapere e, forse, capire, quanto fa uno più uno.

Villeneuve compie una scelta non semplice, quella di mescolare i piani temporali incrociando il racconto delle odissee di Narwal negli anni Settanta e dei gemelli oggi. Il risultato è un film riuscito, completo nel discorso narrativo, capace di tenere ritmo e tensione, persino esteticamente bello nelle molte scene dove la guerra si mostra com’è: odio, sudore, fuoco, sangue e polvere. E anche in quelle dove, tra il sangue e la polvere, trova spazio ancora l’umanità. Buona parte del merito va anche a Lubna Azabal, l’attrice belga di origini marocchine già apprezzata in Paradise Now (2006) e qui capace di una grande prova attoriale nei panni di Narwal, un personaggio affatto semplice, duro come un pugno nello stomaco.

Tratto da un lavoro teatrale del libanese Wajdi Mouawad e apparso a Venezia lo scorso anno alle Giornate degli autori, adesso La donna che canta approda agli Oscar nella cinquina per il miglior film straniero.

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