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La Shoah a sproposito

28/08/2009  |  Milano
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Gira e rigira il discorso va a finire sempre lì. Qualsiasi cosa accada in Medio Oriente il termine di paragone è la Shoah. In un gioco che non è affatto innocente, perché rischia sempre di coprire con una coltre di emotività l'analisi di questioni che invece sono complesse. Per questo motivo è una buona notizia il fatto che - su due quotidiani israeliani - due voci significative denuncino i rischi di questa cattiva abitudine.


Gira e rigira il discorso va a finire sempre lì. Qualsiasi cosa accada in Medio Oriente il termine di paragone è la Shoah. In un gioco che non è affatto innocente, perché rischia sempre di coprire con una coltre di emotività l’analisi di questioni che invece sono complesse. Per questo motivo è una buona notizia il fatto che – su due quotidiani israeliani – due voci significative denuncino i rischi di questa cattiva abitudine.

La prima è addirittura la cancelliera tedesca Angela Merkel, che ricevendo il premier israeliano Benjamin Netanyahu a Berlino ieri ha assicurato l’impegno della Germania sulla questione del nucleare iraniano (il cavallo di battaglia preferito della destra israeliana), ma ha anche aggiunto senza peli sulla lingua che sono indebiti i paragoni tra la Shoah e le minacce di Ahmadinejad. Ora: se c’è qualcuno che avrebbe da guadagnarci dal dilagare di questo tipo di paragoni è proprio la Germania. Perché più si associa quell’immagine a qualcos’altro e più le colpe dei nazisti sbiadiscono. Invece con intelligenza la Merkel si sottrae al gioco. E lo fa proprio nel momento in cui è l’unico leader europeo a fare realmente da sponda a Barack Obama sulla questione del congelamento degli insediamenti. Due posizioni che devono essere andate entrambe di traverso oggi a Netanyahu. Ed è significativo che Yediot Ahronot titoli il suo articolo da Berlino proprio sulla battuta riguardante la Shoah: il paragone tra Ahmadinejad e Hitler, infatti, è ormai un mantra della politica israeliana (e anche di tante voci dell’ebraismo italiano). Non si tratta di essere indulgenti con Teheran. Ma bisogna riconoscere che la questione iraniana non si risolve dipingendo una svastica sulle vesti degli ayatollah. Proprio quanto è successo in Iran in questo inizio estate sta lì a dimostrarlo. C’è una società civile coraggiosa sotto il pugno di ferro di Ahmadinejad. Cosa che non c’era in Germania negli anni Trenta. Se un paragone si può fare oggi è piuttosto quello con l’Europa dell’Est sotto il regime comunista. E – guarda caso – anche allora in ballo c’era la questione nucleare. Che cosa sarebbe successo se ci fossimo comportati come Netanyahu oggi vorrebbe si facesse con l’Iran?

Ma il paragone con la Shoah viene tirato in ballo spesso a sproposito anche contro Israele. E qui allora diventa interessante la seconda voce, quella di Gideon Levy su Haaretz. Anche qui: se c’è qualcuno che è al di sopra di ogni sospetto di connivenza con gli abusi commessi da Israele contro i palestinesi è proprio Gideon Levy. Il suo nome è visto come il fumo negli occhi da tanti israeliani, che lo considerano un estremista di sinistra. Ebbene: proprio lui oggi si scaglia con forza contro il famigerato articolo apparso su un quotidiano svedese in cui si accusa l’esercito israeliano di traffico di organi che sarebbero stati prelevati da vittime palestinesi. Levy denuncia l’approssimazione di questa denuncia, priva di qualsiasi riscontro che possa renderla almeno verosimile. Ma è importante la sua motivazione: questo tipo di operazioni, alla fine, si ritorcono contro chi invece denuncia abusi reali. Perché tutto alla fine finisce sotto l’etichetta delle «accuse false di chi ce l’ha con noi». In questo senso Levy allarga il discorso anche ai paragoni con la Shoah: «Ogni esagerazione nel descrivere la crudeltà dell’occupazione – scrive – alla fine danneggia la lotta contro di essa. È facile provare che Israele non traffica organi palestinesi, come è facile provare che i soldati palestinesi non si comportano come i nazisti e non stanno compiendo un genocidio. Ma questo non significa che l’occupazione non sia un male, criminale e brutale».

Parole sagge. Che indicano un punto fermo dell’impegno per la pace: il primo nemico da combattere è l’emotività che «in nome della causa» è pronta a ricorrere a qualsiasi arma retorica. Teniamolo presente in questi giorni in cui finalmente si torna a parlare del processo di pace in Medio Oriente. Sono davvero molto difficili i passi in avanti finché i discorsi di tutti continuano a essere costellati di iperboli.

Clicca qui per leggere l’articolo di Yediot Ahronot
Clicca qui per leggere l’articolo di Gideon Levy

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