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La gita di Annapolis

24/11/2007  |  Milano
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La gita di Annapolis
Il professor Mahdi Abdul Hadi.

Gli Stati Uniti hanno confermato che la Conferenza internazionale sul Medio Oriente di Annapolis avrà luogo il 27 novembre con l'obiettivo di preparare il terreno ad una soluzione del conflitto israelo-palestinese. Sono state spedite 49 lettere d'invito ad altrettanti Paesi, istituzioni e personalità. Arabia Saudita e Siria non hanno ancora sciolto la riserva sulla loro partecipazione. Mentre l'Egitto ha confermato la sua presenza, il re giordano Abdullah II e il leader palestinese Abu Mazen hanno sollecitato «una posizione univoca» dei Paesi arabi. Sui temi e le prospettive di Annapolis abbiamo chiesto il parere del professor Mahdi Abdul Hadi, fondatore e direttore della Palestinian Academic Society for the Study of International Affairs.


Gli Stati Uniti hanno confermato che la Conferenza internazionale sul Medio Oriente di Annapolis avrà luogo il 27 novembre con l’obiettivo di preparare il terreno ad una soluzione del conflitto israelo-palestinese. Sono state spedite 49 lettere d’invito ad altrettanti Paesi, istituzioni e personalità. Arabia Saudita e Siria non hanno ancora sciolto la riserva sulla loro partecipazione. Mentre l’Egitto ha confermato la sua presenza con il ministro degli Esteri Ahmed Aboul Gheit. Il re giordano Abdullah II e il leader palestinese Abu Mazen, al termine di un incontro ad Amman, hanno sollecitato «una posizione univoca» dei Paesi arabi in vista dell’appuntamento del prossimo 27 novembre.

Sui temi e le prospettive di Annapolis abbiamo chiesto il parere del professor Mahdi Abdul Hadi, fondatore e direttore della Palestinian Academic Society for the Study of International Affairs (Passia), prestigioso istituto di formazione per la classe politica e diplomatica palestinese. In una lunga intervista a Manuela Borraccino, pubblicata sulla rivista Terrasanta di novembre-dicembre, il politologo esprime le sue preoccupazioni soprattutto in merito alla reale volontà di affrontare i nodi del conflitto israelo-palestinese e l’auspicio di un ruolo più attivo da parte dell’Europa. Ecco alcuni stralci della conversazione.

Professor Abdul Hadi, che cosa è lecito aspettarsi dalla Conferenza internazionale di pace voluta da Washington?
Considerato che il capo della Casa Bianca è nell’ultimo anno del suo mandato, è poco probabile che qualcosa di sostanziale si muova prima delle elezioni del novembre 2008. In questo scenario la Conferenza internazionale per la pace in Medio Oriente fissata per la fine di novembre rischia di essere solo un’operazione di facciata, un’uscita dignitosa dalla Casa Bianca. Dopo aver sbandierato per anni la volontà di costituire uno Stato palestinese, ora George W. Bush cerca di ottenere almeno una parvenza di avvio di processo di pace.

Quali sono i rapporti di forza all’interno della compagine palestinese?
La situazione politica interna è precipitata: siamo implosi in un sistema di apartheid, dove si lotta contemporaneamente per la sopravvivenza e per il potere. L’ala militare di Hamas ha assunto il controllo di Gaza, con Ismail Haniey che fondamentalmente copre Mahmoud Zahar (co-fondatore di Hamas e vero uomo forte nella Striscia di Gaza – ndr). E in questa situazione Abu Mazen non ha margini di manovra. Tanto che, dopo non aver riconosciuto il legittimo risultato delle elezioni, ora sta rimediando ad un errore con un altro errore: ignorare Gaza, tagliarla fuori dall’entità palestinese. Cosa che per la maggior parte dei palestinesi è un insulto: non si può far finta che la Striscia di Gaza non esista. C’è un problema enorme nell’establishment palestinese, riguardante le istituzioni, il funzionamento dei ministeri, le infrastrutture, il sistema… E nessuno al momento sa dire come possa esser risolto. Questa separazione sta durando molto di più di quanto ci aspettassimo, e la crisi è reale. Non vedo vie d’uscita: non vedo gli egiziani intervenire come mediatori, o i sauditi, o i giordani. Sono convinto che gli israeliani abbiano degli infiltrati a Gaza che stanno compiendo degli omicidi mirati, a Khan Yunis e Beit Hanoun, eliminando i più pericolosi. Se le cose dovessero peggiorare in Iran, o dovessero accadere degli incidenti in Libano del sud, sono sicuro che gli israeliani non si lascerebbero scappare l’occasione di intervenire a Gaza e fare piazza pulita dei facinorosi, come peraltro sta già accadendo. Nell’indifferenza generale.

Quali sono oggi le soluzioni possibili?
Tutte le opzioni sono aperte. Potrebbe persino prevalere lo status quo, anche per molto tempo. Se rivolgiamo lo sguardo agli Stati Uniti, vediamo che anche immaginando un cambio di rotta con le presidenziali del novembre 2008, ci vorranno molti mesi prima che emerga una nuova politica estera verso il Medio Oriente e vengano prese posizioni per così dire innovative verso Israele. Se guardiamo all’Arabia Saudita, vediamo che i sauditi da una parte cercano di bilanciare la volontà di potenza dell’Iran, dall’altra accettano da Washington armi e denaro. Cercano di farsi mediatori fra Teheran e Washington, e nel frattempo incoraggiano la partecipazione di tutti i Paesi della regione ai colloqui su sicurezza, confini, traffico di droga, contrabbando di armi… C’è una grande ipocrisia politica in tutto questo, possiamo anche chiamarla sopravvivenza, ma questa è la situazione oggi.
Chi può far davvero la differenza sono i Paesi europei. Vista da questa parte del mondo, l’Europa sembra essersi appiattita sulle posizioni degli Stati Uniti, prima con la guerra in Iraq e le prigioni della Cia in Europa, e ora con il pressing sull’Iran. Così facendo, di fatto appoggia l’occupazione israeliana: basti pensare che l’Unione europea non ha mai chiesto un euro di risarcimento per tutte le opere che erano state costruite con i fondi Ue per i palestinesi e che sono state rase al suolo dagli israeliani. Qual è dunque l’identità europea?

Che cosa vi aspettate dall’Europa?
Quel che è andato storto finora fra i palestinesi e l’Europa è che gli europei non ci hanno trattato come partner. Hanno adottato il rapporto di sudditanza che c’è fra donatori e beneficiari: con il paternalismo dei finanziatori che danno fondi senza preoccuparsi eccessivamente di formare degli esperti che diventino autonomi. Oggi tutto questo può cambiare: ci vorrà molto tempo, ma ci aspettiamo che l’Europa possa aiutare i palestinesi ad aiutare se stessi nel realizzare quei valori che hanno fatto grande la storia europea: libertà, solidarietà, uguaglianza, indipendenza, democrazia, formazione, Stato di diritto.

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