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Shlomo Ben Ami: conferenza di Washington, poche illusioni

21/09/2007  |  Roma
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Shlomo Ben Ami: conferenza di Washington, poche illusioni
Lo storico israeliano Shlomo Ben Ami.

«Due condizioni sono indispensabili oggi per riavviare il processo di pace: recuperare l'unità politica dei palestinesi e che gli Stati Uniti guidino una coalizione internazionale per la pace in Medio Oriente che possa mettere sul tavolo una proposta concreta, possibilmente più dettagliata e meno generica di quella saudita». Senza questi punti di partenza, avverte lo storico Shlomo Ben Ami - ministro degli Esteri, e della Sicurezza, israeliano nel biennio 2000-2001 -, non c'è da farsi illusioni sugli esiti della Conferenza di pace convocata a Washington per metà novembre. Di passaggio a Roma nei giorni scorsi per la presentazione di un suo libro, Ben Ami ha aggiunto altre riflessioni degne di attenzione. Ve le riproponiamo.


«Due condizioni sono indispensabili oggi per riavviare il processo di pace: recuperare l’unità politica dei palestinesi e che gli Stati Uniti guidino una coalizione internazionale per la pace in Medio Oriente che possa mettere sul tavolo una proposta concreta, possibilmente più dettagliata e meno generica di quella saudita». Senza questi punti di partenza, avverte lo storico Shlomo Ben Ami – ministro degli Esteri, e della Sicurezza, israeliano nel biennio 2000-2001 -, non c’è da farsi illusioni sugli esiti della Conferenza di pace convocata a Washington per metà novembre. «Oggi – ha aggiunto – la confusione è grande, tanto nel governo palestinese quanto in quello israeliano: in questa situazione dubito che si possa ottenere qualcosa di solido in due mesi. Dichiarazioni di buona volontà, forse. Ma non è con la poesia che si cambia qualcosa sul terreno».

Ben Ami, a capo della diplomazia israeliana durante il fallito vertice di Camp David del 2000, era di passaggio a Roma, nei giorni scorsi, per la rassegna Incontri nel Mediterraneo in corso all’Auditorium e per la presentazione all’Istituto di cultura spagnola Cervantes del suo libro sul processo di pace Cicatrizes de guerra, heridas de paz ( Palestina. La Storia incompiuta, ed. Corbaccio, 2007). «Chi come me ha negoziato per due anni con i palestinesi sa che non c’è da inventare nulla di nuovo: dopo 60 anni tutto il mondo conosce i termini del problema e le possibili soluzioni. Ora si tratta, da parte della comunità internazionale, di farsi carico di una proposta precisa che non credo si possa discostare molto dal piano presentato a Camp David nel 2000, i cosiddetti parametri Clinton» dice a margine della conferenza Ben Ami.

Lo storico, che è stato anche ambasciatore d’Israele in Spagna e oggi vive fra Tel Aviv e Madrid, parla a Roma nel giorno in cui il segretario di Stato americano Condoleezza Rice arriva in Medio Oriente per non far slittare il vertice, mentre il governo israeliano definisce Gaza «un’entità ostile» e l’entourage palestinese minaccia da giorni di boicottare l’incontro se non si raggiungerà un accordo preliminare sulle questioni chiave del conflitto. Ben Ami non ha dubbi: «Si devono dare risposte concrete a questioni concrete: la fine dell’occupazione, Gerusalemme, il ritorno dei rifugiati. Una volta che la comunità internazionale abbia posto sul tavolo una proposta di pace, bisogna accompagnare le parti verso la loro applicazione: assistere l’Autorità palestinese nel ripristino delle piene funzioni istituzionali e nella riforma del sistema di sicurezza, e controllare che anche Israele faccia la sua parte. Ci vuole insomma un impegno da parte di tutti: questo è quello che va fatto. Ma che suggeriscano a Olmert e Abbas di incontrarsi ogni due settimane e che la Rice venga a farsi un giro una volta al mese per vedere come procedono… è inutile» allarga le braccia Ben Ami.

Il diplomatico pensa che sia stato un errore strategico spingere Hamas nell’angolo come ha fatto la comunità internazionale fin dall’esito delle elezioni. «Oggi la situazione si è complicata, ma la mia posizione fin da quando Hamas era giunta al potere è che fosse necessario farla entrare in un processo politico che doveva necessariamente portare i palestinesi a un compromesso. Anziché metterli alla gogna e scegliere il boicottaggio come ha fatto anche l’Unione Europea, era necessario avviare un dialogo: il riconoscimento reciproco doveva essere il risultato dei negoziati, esattamente come è avvenuto con l’Olp negli Accordi di Oslo, e non la premessa del dialogo».

Quel che è avvenuto negli ultimi mesi a Gaza, dice ancora, «rende necessario recuperare gli accordi de La Mecca per tornare al tavolo dei negoziati con un governo di unità nazionale palestinese. La divisione fra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza non può durare: prima o poi la prevarrà la volontà del popolo palestinese di avere una classe politica coerente». Così come non può durare «il paradosso» che Israele sta alimentando: «Gli israeliani non possono far la pace con chi ha perso le elezioni e far la guerra a chi ha vinto le elezioni. Prima o poi dovranno affrontare la realtà».

Da questo punto di vista secondo Ben Ami anche l’aspro dibattito in corso all’interno della società israeliana sulle frange ortodosse e sui coloni, è in sé la spia di un cambiamento e della stanchezza dei cittadini verso il conflitto: «La tragedia personale e familiare dei coloni durante lo smantellamento degli insediamenti a Gaza nel 2005 è stata accolta con freddezza dalla maggior parte degli israeliani. E questo è il messaggio più importante, perché è la prima volta dal 1967 che gli israeliani avviano un dibattito serio su che cosa è Eretz Israel e sui territori, e vincono la battaglia: cresce nel Paese la consapevolezza che dobbiamo restituire i Territori occupati. Non dico che sia facile, ma è possibile: gli israeliani oggi sono disposti a farlo, serve la volontà politica».

Un mese fa, nel corso dell’evacuazione da Hebron di alcune famiglie di estremisti che avevano occupato dei negozi palestinesi e durante la quale alcuni soldati rifiutarono di obbedire agli ordini dei superiori, l’opinione pubblica israeliana si è chiesta con orrore se non si stesse profilando una guerra civile all’orizzonte. Ma Ben Ami scaccia questa ipotesi: «Ci possono essere degli scontri fra popolazione e polizia, ma questo non è una guerra civile. Una guerra civile è quando l’esercito si divide e questo da noi non accadrà mai. Quel che è accaduto a Hebron è che due o tre soldati si sono rifiutati di partecipare allo sgombero. E con questo? Il risultato è ridicolo… L’esercito è uno degli elementi più solidi del sistema israeliano. È vero – ammette – che la sua struttura sociale sta cambiando: aumentano i religiosi, i russi, gli orientali… Ma questo non cambia il comportamento dell’esercito come corpo dello Stato che resta assoggettato alle decisioni dei politici».

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