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Israele e Arabia Saudita sempre più vicini

Giorgio Bernardelli
24 febbraio 2017
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Il premier israeliano Benjamin Netanyahu lo ha ribadito giorni fa alla Casa Bianca: Israele flirta coi governi arabi in chiave anti iraniana. Ma se toccate il tema Palestina la musica cambia.


Sul vertice della settimana scorsa alla Casa Bianca tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu molto è stato scritto in questi giorni. C’è però una frase pronunciata dal premier israeliano  in quell’occasione scivolata via come se nulla fosse e che invece secondo me avrebbe meritato un po’ più di attenzione. Verso la fine del suo intervento, infatti, Netanyahu – per la prima volta in un’occasione ufficiale – ha parlato del nuovo genere di relazioni esistenti oggi tra Israele e alcuni Paesi arabi. E lo ha fatto con parole insolitamente chiare: «Nel contrastare l’Islam radicale oggi possiamo cogliere un’opportunità storica – ha detto il premier israeliano – perché, per la prima volta nella mia vita e per la prima volta nella vita del mio Paese, i Paesi arabi della regione non guardano a Israele come a un nemico ma sempre di più come a un alleato. E io credo – ha concluso rivolgendosi a Trump – che, sotto la tua leadership, questo cambiamento in corso nella regione crei un’opportunità senza precedenti per rafforzare la sicurezza e far avanzare la pace».

Spogliate queste parole della retorica grondante in ogni incontro ufficiale; resta comunque un dato di fatto: dal 15 febbraio 2017 c’è un premier israeliano che non parla più del suo Paese come del fortino assediato dall’ostilità di tutti i Paesi arabi. Dice – piuttosto – che ci sono Paesi della regione che oggi cercano un’alleanza con Israele. E questo fatto, almeno a parole, è riconosciuto come «una straordinaria opportunità».

La domanda ovviamente diventa: di quali nazioni arabe sta parlando? Non solo di Egitto e Giordania, i due Paesi con cui Israele ha firmato un trattato di pace (rispettivamente nel 1979 e nel 1994 – ndr) e intrattiene relazioni diplomatiche. Perché quando parla di un nuovo contesto regionale è evidente che Netanyahu guarda ben più lontano: all’Arabia Saudita e ai Paesi del Golfo. Non è un mistero per nessuno che negli ultimi anni la percezione di un nemico comune – l’Iran – abbia avvicinato parecchio tra loro israeliani e sauditi. Si è parlato tante volte di incontri nemmeno troppo segreti avvenuti a margine di vertici internazionali o di convegni organizzati da fondazioni o istituzioni accademiche in lussuosi resort con vista sul Golfo Persico o sul Mar Rosso. Come non è passata inosservata nemmeno l’alleanza di fatto nel complicato scacchiere siriano, con i ripetuti raid dei caccia con la Stella di Davide sulle postazioni di Hezbollah (l’ultimo pochi giorni fa).

Il livello di cooperazione con i sauditi, però, si è spinto ben più avanti. Uno spaccato interessante, ad esempio, l’ha offerto nelle scorse settimane un’inchiesta ben documentata dell’agenzia economica Bloomberg su una serie di start-up israeliane (il più delle volte create da ex militari in congedo) che stanno facendo affari con ingenti commesse di Riyadh nel settore della tecnologia applicata alla sicurezza. Attività economiche sottotraccia, dal momento che ufficialmente non esistono relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Ma basta una società registrata negli Stati Uniti per aggirare facilmente il problema. Bloomberg racconta persino di una società israeliana arrivata a un passo dall’aggiudicarsi la commessa dei braccialetti elettronici che dall’anno scorso vengono imposti dalle autorità saudite a tutti i pellegrini che si recano alla Mecca durante l’Haji. E che tra i sogni non troppo remoti ci sarebbe anche quello di un oleodotto.

La novità è che Netanyahu ora ha deciso di portare questo gioco di alleanze allo scoperto, sfruttandolo politicamente. Del resto non potrebbe esserci momento migliore: l’amministrazione Trump ha rimesso l’Iran in testa alla lista dei Paesi ostili; il che è musica per le orecchie dei sauditi. Appare sempre più evidente l’intenzione di Washington di rinsaldare l’alleanza con le potenze sunnite, al punto da lasciar filtrare indiscrezioni come quella sull’ipotesi di una sorta di «Nato del Golfo» che sarebbe tra le opzioni che la Casa Bianca sta prendendo in considerazione. Un’alleanza militare che – pur non potendo formalmente comprendere Israele (sempre per l’assenza di rapporti diplomatici) – avrebbe comunque tra i suoi punti di forza la condivisione delle informazioni con il Mossad (il sservizio segreto israeliano), ovviamente in chiave anti-iraniana.

Netanyahu a Washington ha giocato questa carta sostenendo che la pace in Terra Santa non verrà dai negoziati con gli «inaffidabili» palestinesi ma da questo nuovo quadro regionale. È però realistica questa conclusione? I dubbi restano. Intanto perché il premier israeliano è lo stesso politico che ha sempre osteggiato il piano di pace tra Israele e Palestina sponsorizzato dai sauditi e che risale ormai al 2002. E poi anche perché – non più tardi di un anno fa – questo approccio regionale era stato tentato anche dall’amministrazione Obama sfociando in un ennesimo nulla di fatto: proprio in questi giorni Haaretz ha ricostruito la vicenda di un vertice segreto tenutosi nella primavera 2016 ad Aqaba tra Netanyahu, il presidente egiziano el Sisi, il re giordano Abdallah II e l’allora segretario di Stato americano John Kerry con l’obiettivo di segnare una svolta nel processo di pace. Quando si è trattato di scoprire sul serio le carte anche questo tentativo è andato in fumo. Il che non stupisce: l’alleanza regionale oggi funziona perché per i Paesi sunniti la questione palestinese non è una priorità; ma appena ritorna sul tavolo l’idillio finisce.

Una conferma autorevole su questo stato di cose arriva anche da uno dei protagonisti della vicenda, l’ex ambasciatore Usa in Israele Dan Shapiro, che da quando, poche settimane fa, ha lasciato l’incarico è diventato un attivissimo commentatore su Twitter. Sul vertice di Aqaba ha pubblicato una serie di ben 14 tweet che si conclude con questo commento eloquente: «Tutto quello che posso fare è augurare buona fortuna a chi è venuto dopo di me. Un approccio regionale alla pace in Medio Oriente se funzionasse sarebbe una grande vittoria. Ma consiglio di cuore di procedere con gli occhi aperti…».

Clicca qui per leggere i testi integrali dei discorsi di Trump e Netanyahu alla Casa Bianca

Clicca qui per leggere l’articolo di Bloomberg sugli affari delle compagnie israeliane in Arabia Saudita

Clicca qui per leggere un articolo del Times of Israel sulla «Nato del Golfo»

Clicca qui per leggere i tweet di Dan Shapiro sulle trattative segrete del 2016 tra Israele e i Paesi sunniti

 


 

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A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.

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