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In Israele il premier Netanyahu vince la sua scommessa con gli elettori

Giampiero Sandionigi
18 marzo 2015
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In Israele il premier Netanyahu vince la sua scommessa con gli elettori
Benjamin Netanyahu deposita la sua scheda elettorale nell'urna il 17 marzo 2015. (foto: Marc Israel Sellem/Pool/Flash90)

Il partito Likud, del primo ministro in carica, esce dalle urne in forma smagliante e sbaraglia gli avversari nelle elezioni del 17 marzo, le più partecipate dal 1999. Il centrosinistra ha guadagnato terreno, ma senza sfondare; i voti al centro si sono redistribuiti; la componente araba è più forte ma resta ininfluente; Likud a parte, i movimenti di destra, singolarmente presi, perdono seggi.


Erano 5.881.696 i cittadini israeliani attesi alle urne il 17 marzo per eleggere i 120 deputati della ventesima legislatura alla Knesset. Oltre 10 mila e 300 i seggi aperti dalle 7 alle 22. Vi si sono recati 4.017.235 elettori, pari al 68,37 per cento degli aventi diritto (l’affluenza più alta dal 1999).

La percentuale dei votanti arabi si è innalzata rispetto alle passate tornate elettorali. È stata messa in discussione la tradizionale linea di boicottaggio delle urne come segnale di disagio rispetto a uno Stato dal quale i palestinesi con cittadinanza israeliana si considerano discriminati.

L’appuntamento di ieri con le urne era considerato anche un referendum pro o contro il primo ministro uscente Benjamin Netanyahu, che ha voluto le elezioni anticipate nell’intento di rafforzarsi. Una scommessa che era sembrata azzardata, ma che invece ha stravinto.

Secondo i risultati, ancora non ufficiali, diffusi il 18 marzo, il partito del premier – Likud – smentisce gli ultimi sondaggi e, con il 23,26 per cento dei consensi, esce trionfatore dallo spoglio dei voti, aggiudicandosi 30 seggi (nel 2013 ne aveva presi 31 presentandosi in tandem con il partito Yisrael Beitenu; i deputati Likud nella legislatura appena conclusa erano 18). Secondi, con notevole distacco, i principali antagonisti: quell’Unione sionista che ha unito le forze dei laburisti e del partito Hatnuah. Con il 18,73 per cento di voti, l’Unione ha conquistato 24 seggi (i laburisti ne avevano 15, Hatnuah 6). La Lista araba unitaria – 10,98 per cento – guadagna 14 seggi (i partiti arabi ne avevano 11). Crolla il centrista Yesh Atid che passa da 19 a 11 deputati. I suoi elettori migrano, verosimilmente, verso il nuovo partito Kulanu, che si aggiudica 10 deputati. Perde consensi anche HaBayit HaYehudi (destra nazionalista che raccoglie suffragi tra i coloni); guadagna infatti 8 seggi, 4 in meno rispetto al 2013. Anche il partito religioso Shas scende da 11 a 7 deputati; Giudaismo unito nella Torah manda alla Knesset 6 rappresentanti (uno in meno rispetto a prima). A Yisrael Beitenu, del ministro degli Esteri uscente Avigdor Lieberman, vanno 6 seggi (ne aveva 13 e i sondaggisti mettevano persino in dubbio che potesse superare la soglia di sbarramento). Meretz (estrema sinistra) perde altri deputati, scendendo da 6 a 4. Scompare Kadima – effimera creatura del defunto Ariel Sharon – che aveva 2 seggi nella diciannovesima legislatura.

In sintesi: il centrosinistra ha guadagnato terreno, ma senza sfondare; i voti al centro si sono redistribuiti; la componente araba si rafforza, ma resterà, probabilmente, ininfluente; i movimenti di destra, singolarmente presi, sono tutti più deboli, escluso il Likud, in forma smagliante.

Netanyahu si avvia a formare un nuovo esecutivo di stampo nazionalista-religioso. Il centrosinistra pare intenzionato a restare all’opposizione anche se, a botta calda, il capo dello Stato, Reuven Rivlin, ha dichiarato che lavorerà per un governo di unità nazionale.

Il premier uscente resta dunque saldo in sella, come l’uomo ritenuto capace di tenere il timone del Paese in quest’ora particolarmente turbolenta per tutto il Medio Oriente. Restano aperti, però, alcuni interrogativi chiave. Ne richiamiamo qui uno soltanto. Appellandosi all’elettorato, nei giorni precedenti il voto del 17 marzo Netanyahu assicurava che con lui alla guida del governo non ci sarà spazio per uno Stato palestinese e che Gerusalemme verrà «fortificata» con una cintura di nuovi quartieri/insediamenti. Se così è, che Israele hanno in mente il primo ministro e i suoi elettori? Riusciranno a farlo sembrare convincente al resto del mondo?

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Ernesto Borghi

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