
Sessant'anni fa san Paolo VI promulgava la dichiarazione conciliare Nostra aetate, decisiva per aprire una nuova fase nei rapporti tra cattolici ed ebrei, oggi un po' in affanno. Ne parliamo con il segretario del Dicastero vaticano per la Promozione dell'Unità dei cristiani.
Ricorrono in questo mese d’ottobre i sessant’anni dalla promulgazione della dichiarazione conciliare Nostra aetate, decisiva – con il suo numero 4 – per aprire una nuova, positiva, fase nei rapporti tra cattolici ed ebrei. Di seguito offriamo ai lettori di Terrasanta.net un estratto dell’intervista rilasciata al direttore Giuseppe Caffulli, per la rivista Terrasanta, da mons. Flavio Pace, segretario del Dicastero vaticano per la Promozione dell’Unità dei cristiani, che si occupa anche del dialogo interreligioso con l’ebraismo.
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A sessant’anni dalla Nostra aetate – la dichiarazione conciliare che nel 1965 ha segnato una svolta irreversibile nei rapporti tra la Chiesa cattolica e le religioni non cristiane, in particolare con l’ebraismo – il bilancio del dialogo ebraico-cristiano appare articolato: ricco di frutti, ma anche segnato da fatiche, tensioni e sfide ancora aperte.
• Monsignor Pace, come valuta lo stato del dialogo ebraico-cristiano, sessant’anni dopo Nostra aetate? È ancora un dialogo fecondo?
È certamente un tempo di travaglio, per usare un’espressione cara al cardinale Angelo Scola. Ma un travaglio non è la fine di un processo, è piuttosto un tempo di generazione. Ci sono tensioni reali, fatiche, anche freddezze. Eppure, questo cammino, iniziato con il Vaticano II, non si è interrotto. Anzi, direi che proprio in questa fase difficile emerge con forza l’urgenza di continuare a camminare insieme. Sessant’anni non sono solo un anniversario: sono anche un invito a rileggere Nostra aetate non come una parola consegnata al passato, ma come un seme ancora capace di germogliare oggi.
• Molti osservatori hanno notato un raffreddamento nei rapporti, in particolare dopo il 7 ottobre 2023. Cosa è successo?
Dobbiamo essere onesti. Dopo il 7 ottobre, molte voci nel mondo ebraico hanno espresso delusione, dolore, a volte perfino una percezione di distanza da parte della Chiesa. È un momento in cui ogni parola viene pesata, a volte equivocata. Ma non è la prima volta che il dialogo attraversa fasi complesse. Questo accade quando si confonde il livello religioso con quello politico. Nostra aetate non è un documento di geopolitica. Parla della nostra relazione teologica con il popolo dell’alleanza, non delle dinamiche tra Stati.
• Eppure, le vicende del conflitto israelo-palestinese sembrano entrare continuamente nel discorso…
Sì, ed è inevitabile, ma dobbiamo distinguere i piani. Un conto è la posizione della Santa Sede sul rispetto del diritto internazionale, che riguarda la diplomazia. Un altro è il riconoscimento del legame spirituale tra cristianesimo ed ebraismo. Questo legame non può essere intaccato da eventi politici, per quanto drammatici. Il popolo ebraico resta, per la Chiesa, il popolo dell’Alleanza. E i doni di Dio, come dice san Paolo, sono irrevocabili.
• Come superare il clima di sfiducia?
Serve ascolto. Serve riconoscere che per l’ebraismo il rapporto tra popolo, terra e Promessa ha una valenza profonda, spesso difficile da comprendere per noi cristiani occidentali. Dobbiamo sospendere il giudizio, porre domande, e farlo in spazi relazionali veri, non nei talk show, ma in incontri autentici. Solo relazioni umane profonde creano i presupposti per un dialogo che sia anche spirituale, e superi le barriere politiche e ideologiche.
• Concretamente, come si tiene viva la consapevolezza dei legami con l’ebraismo nelle comunità cristiane?
Ecco il punto decisivo: la ricezione. Nostra aetate è stata epocale, ma rischia di rimanere patrimonio di pochi se non viene recepita nel vissuto delle comunità. La formazione dei sacerdoti, l’insegnamento della religione nelle scuole, la predicazione, l’omiletica: tutto questo può e deve riflettere un legame profondo con le radici ebraiche della fede cristiana. Non si tratta di archeologia religiosa, ma di identità. Un cristiano che ignora l’ebraismo rischia di vivere una fede decapitata.
• Molti ebrei oggi dicono di sentirsi in pericolo in Europa. Cosa può fare la Chiesa?
Non possiamo tacere. L’antisemitismo è un veleno che torna a diffondersi. Incendi, aggressioni, parole cariche di odio… Non possiamo restare ciechi. Il patriarca [latino di Gerusalemme] Pierbattista Pizzaballa, come anche papa Leone, è stato chiaro nel condannare ogni forma di antisemitismo. Dobbiamo farlo come Chiesa intera, anche localmente. Non basta dire «noi non c’entriamo». Dobbiamo schierarci, pubblicamente, pastoralmente, culturalmente. E dobbiamo anche vigilare perché le nostre liturgie, i nostri discorsi pubblici, non lascino spazio ad ambiguità.
→ Leggi anche: Un sussidio per spiegare l’ebraismo a scuola
• Cosa possiamo recuperare oggi dai pontificati di san Giovanni Paolo II e di papa Francesco?
Giovanni Paolo II ha compiuto gesti profetici, come la visita alla sinagoga di Roma, il viaggio ad Auschwitz… E come non ricordare il viaggio giubilare in Terra Santa con la richiesta di perdono al Kotel, il muro occidentale del tempio a Gerusalemme. Ha testimoniato con la vita l’amicizia con il popolo ebraico. Francesco ha dato un’impronta forte all’inizio, parlando del popolo ebraico come «amico di Dio» e della necessità appunto di un «dialogo dell’amicizia» tra ebrei e cristiani. Tuttavia il dialogo si è complicato negli ultimi tempi del suo pontificato, soprattutto dopo il 7 ottobre, per le sue prese di posizione contro la guerra a Gaza e il dramma di tante vittime civili. Nonostante le sue esequie siano state segnate da alcune tensioni, posso testimoniare che erano presenti esponenti ebraici. Uno di loro, davanti alla bara di Bergoglio, ha voluto recitare – indossando la kippah e pregando in ebraico – il Salmo 23: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce». Un segno significativo.
• E papa Leone? C’è molta attesa nei suoi confronti, anche nel mondo ebraico. Che segnale è questo?
È un segnale di speranza. La lettera che papa Leone ha inviato subito dopo la sua elezione non solo al rabbino capo di Roma, ma anche a leader ebraici internazionali, è stata accolta con grande entusiasmo. Le sue parole, semplici ma chiare, sul raccogliere l’eredità di Nostra aetate, hanno toccato molti. Alla messa di inizio del pontificato erano presenti molte delegazioni ebraiche, alcune giunte da lontano. Questo dice molto. Anche il fatto che, in uno dei suoi primi impegni pubblici, il 2 giugno, ritornando per la prima volta dopo l’elezione in Cappella Sistina, abbia ricordato il beato cardinale Iuliu Hossu, vescovo greco-cattolico romeno che salvò molti ebrei durante la guerra e chiese di fare altrettanto con una lettera pastorale dai toni molto forti, è stato un segnale importante, soprattutto perché l’evento è stato organizzato in modo congiunto dalla Comunità ebraica di Romania e dalla Chiesa greco-cattolica romena.
• È previsto un evento per il sessantesimo anniversario di Nostra aetate?
Sì, lo stiamo organizzando insieme al Dicastero per il Dialogo interreligioso e ad altri organismi vaticani. Il 28 ottobre, nell’Aula Paolo VI, ci sarà una grande commemorazione, con delegazioni ebraiche presenti e, nella parte conclusiva, anche con la partecipazione di papa Leone. Il giorno dopo, l’udienza generale del 29 ottobre sarà interamente dedicata a Nostra aetate. Il nostro desiderio è che questo non sia solo un evento romano, ma che risuoni anche localmente: nelle diocesi, nelle parrocchie, nelle scuole. Perché il dialogo o è concreto, o non è.
Flavio Pace, da Milano alla Chiesa universale
Monsignor Flavio Pace nasce il 29 luglio 1977 a Monza, in diocesi di Milano. Dopo gli studi liceali entra nel seminario diocesano. È prete dal 2002. I primi nove anni di sacerdozio li trascorre nella cittadina di Abbiategrasso, impegnato con i piccoli e i giovani in oratorio, insegnante di religione al liceo, cappellano nell’hospice. Il prevosto dell’epoca presta attenzione anche alla comunità musulmana presente in città. Forse influenzato da questa sensibilità, in quegli anni don Flavio studia islamismo a Roma, presso il Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica (Pisai).
Nel 2011 si conclude l’esperienza pastorale in parrocchia. Il suo arcivescovo, il cardinale Dionigi Tettamanzi, al quale aveva chiesto di poter andare in Turchia per raccogliere il testimone di don Andrea Santoro – il prete romano fidei donum che fu assassinato nel 2006, dopo 6 anni di presenza a Trabzon (Trebisonda) –, gli propone invece di servire nella Curia romana: «Sarà la tua Turchia».
Don Flavio entra nell’organico della Congregazione per le Chiese orientali sotto il pontificato di Benedetto XIV e diventa segretario del cardinale prefetto, l’argentino Leonardo Sandri. Nel febbraio 2024 papa Francesco lo nomina arcivescovo e lo trasferisce al Dicastero per la Promozione dell’Unità dei cristiani, di cui diventa segretario.
L’intervista integrale a mons. Flavio Pace, intitolata Un tempo di «fecondo travaglio», è pubblicata nel Dossier al centro del numero di settembre-ottobre 2025 del bimestrale Terrasanta.
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