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La «pazienza strategica» dell’Iran

Elisa Pinna
8 gennaio 2024
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A cavallo del nuovo anno una serie di attentati e stragi hanno colpito l’Iran e suoi più stretti alleati – il cosiddetto «Asse della resistenza» contro Israele. Mentre il Medio Oriente pare sempre sull'orlo di un conflitto più esteso, i leader di Teheran mantengono per ora toni contenuti.


«Pazienza strategica»: è ciò che ha chiesto la guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, ai suoi connazionali e agli alleati dell’«Asse della Resistenza», dopo il crescendo di attacchi israeliani (e statunitensi in Iraq) di inizio anno, e dopo la strage terroristica avvenuta in Iran il 3 gennaio e rivendicata dall’Isis, su cui le autorità della Repubblica islamica stanno indagando per risalire ad eventuali mandanti regionali.

Il calendario dei giorni a cavallo tra il 2023 e il 2024 è stato scandito da un’escalation di azioni militari, di alto valore simbolico, per colpire e mettere in difficoltà soprattutto Teheran ed Hezbollah. Il 25 dicembre è stato ucciso a Damasco, in un bombardamento israeliano, il generale dei Pasdaran, Seyyed Razi Musavi, figura chiave per la Repubblica islamica, in quanto responsabile dei rapporti con la Siria e supervisore del traffico di armi tra Iran e i suoi associati. Subito dopo, è partito un attacco cibernetico, non rivendicato, che ha bloccato tutte le pompe di benzina nella Repubblica islamica, mandando il Paese nel caos per quasi 24 ore.

Il 2 gennaio, in un secondo bombardamento israeliano, stavolta a Beirut, è stato eliminato il dirigente di Hamas, Saleh Arouri, a oggi il nemico politico-militare più importante fatto fuori da Israele dall’inizio della guerra di Gaza. Hezbollah in ottobre aveva promesso di entrare in guerra contro lo Stato ebraico se questi avesse violato la sovranità nazionale libanese, oltrepassando per primo quella invisibile linea rossa che negli ultimi anni, ed anche negli ultimi tre mesi, aveva mantenuto i combattimenti tra milizia libanese ed esercito israeliano circoscritti entro un’area di 6-7 chilometri, a nord e a sud della cosiddetta «linea blu» del confine.

Intanto a Baghdad, per la prima volta da molti anni, le forze armate statunitensi hanno compiuto un raid per uccidere la dirigenza di una milizia filo-iraniana che fa parte delle forze militari nazionali irachene. Sarà interessante seguire gli sviluppi di questa mossa.

Il 3 gennaio due kamikaze si sono fatti esplodere, a distanza di una ventina di minuti, tra la folla di migliaia di persone che si stavano recando nel cimitero di Kerman in Iran, per rendere omaggio alla memoria del generale Qasem Soleimani. Era il quarto anniversario del suo omicidio, avvenuto a Baghdad il 3 gennaio 2020, in un blitz statunitense ordinato dall’allora presidente Donald Trump.

Infine, l’8 gennaio è stato ucciso a Beirut, con un bombardamento mirato di cui non si conoscono ancora gli autori, Hassan Al Tawil, uno dei comandanti militari di Hezbollah, il partito/milizia sciita filoiraniano.

Nell’attentato di Kerman sono morti quasi cento civili e altri trecento sono stati feriti. Al di là delle cifre di una delle più cruente stragi terroristiche mai avvenute nella Repubblica islamica, ciò che nelle prime ore ha impressionato e fatto temere il peggio era l’obiettivo simbolico dell’attacco. Il generale Soleimani è infatti l’uomo che ha sconfitto sul campo di battaglia l’Isis in Iraq e in Siria, ma è anche l’artefice dell’«Asse della Resistenza», ovvero di quel coordinamento politico-militare tra Iran, Siria, milizie irachene, houti yemeniti ed Hezbollah libanesi che ha per obiettivo «la distruzione dello Stato sionista» e la cacciata definitiva degli Stati Uniti dalla regione mediorientale.

Soleimani è considerato un eroe in patria, in Iraq e in altri Paesi della regione (tra le vittime dell’attentato di Kerman ci sono anche 15 afghani). Da un altro lato però è visto come il male assoluto, sia dalle cellule estremiste sopravvissute al crollo dello Stato islamico, sia da Israele, che imputa all’ideologia iraniana, rappresentata da Soleimani, il fatto di trovarsi circondato da nemici implacabili. La rivendicazione dell’Isis è stata accolta probabilmente con un sospiro di sollievo in diverse cancellerie occidentali, ma tra mille dubbi sui giornali iraniani, che evocano una regia israeliana dietro la manovalanza dell’estremismo fondamentalista sunnita. Ai funerali delle vittime, né la guida suprema né il presidente iraniano Ebraihim Raisi hanno adottato toni particolarmente infuocati. Anzi, proprio in questa occasione, l’ayatollah Khamenei ha parlato di «pazienza strategica», che – spiegano i media nazionali – si traduce nel mantenere una pressione a bassa intensità su Israele, senza farsi trascinare in una guerra catastrofica per tutti.

Nell’annunciata rappresaglia per l’uccisione del leader di Hamas, i miliziani di Hezbollah – che dispongono di missili iraniani in grado di raggiungere Tel Aviv e le altre città israeliane – hanno scelto di non oltrepassare la linea rossa ignorata da Israele solo pochi giorni prima. Si sono mantenuti infatti nell’area di attrito quotidiano, pur scaricando su una base militare israeliana 62 razzi in poche ore.

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