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Bruno Segre, generoso e schietto uomo di dialogo

Giuseppe Caffulli
12 settembre 2023
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Bruno Segre, generoso e schietto uomo di dialogo
Bruno Segre in una serata sulla Shoah presso la sede della Fondazione Terra Santa nel 2016. (foto FTS)

Scomparso il 21 agosto scorso, sazio di giorni, Bruno Segre ci mancherà. In tanti hanno potuto apprezzare in lui l'acutezza e la schiettezza mai banali nel leggere la storia dell'ebraismo contemporaneo e di Israele.


Tra pochi giorni, nella mattinata del 16 settembre presso la casa funeraria di via Corelli 120 a Milano, si svolgerà una cerimonia laica di commemorazione di Bruno Segre, deceduto all’età di 93 anni il 21 agosto scorso. Filosofo e storico dell’ebraismo, nato a Lucerna (in Svizzera) nel 1930, Segre si era laureato all’Università Statale di Milano e aveva insegnato nel Movimento comunità di Adriano Olivetti e poi nella Confederazione elvetica. Ha fatto anche parte del consiglio del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) di Milano e, dal 1991 al 2007, ha presieduto l’associazione Amici di Neve Shalom Wahat al-Salam, di cui è rimasto poi presidente onorario. Tra le sue opere ricordiamo La Shoah. Il genocidio degli ebrei in Europa (Il Saggiatore, 1998), Gli ebrei in Italia (Giuntina, 2001) e Adriano Olivetti. Un umanesimo dei tempi moderni (Imprimatur, 2015).

La Fondazione Cdec, in un comunicato, ha ricordato «con riconoscenza l’amico Bruno Segre, già membro del consiglio di amministrazione della Fondazione per oltre dieci anni». «Il suo impegno costante per la pace – sottolinea il Cdec –, il suo lavoro continuo per una cultura di inclusione e di dialogo, la sua attenzione a una divulgazione di alto livello unita alla propensione a un confronto aperto e schietto, hanno ispirato il nostro lavoro nel passato e ci resteranno come modello per il futuro».

Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere Bruno Segre e di collaborare con lui in varie occasioni. Non si è mai sottratto, in occasione delle Giornate della Memoria, agli inviti nei contesti più disparati (dalle scuole alle parrocchie). Non si è mai ritratto quando mi sono trovato a chiedere – per la redazione di qualche articolo – pareri sull’ebraismo italiano e/o sulla situazione d’Israele (della quale era attento osservatore). Non si è mai nascosto davanti alle spinose questioni dell’identità ebraica, che per tutta la vita ha saputo declinare dentro a un profondo rispetto per la democrazia e nel quotidiano impegno per la coesione sociale. Non si è mai negato ai frequenti inviti alla trasmissione di Rai Radio 3 Uomini e profeti da parte della storica conduttrice Gabriella Caramore. Da ebreo laico non praticante, è anche stato una voce preziosa del dialogo ebraico-cristiano in Italia, con la sua partecipazione ai colloqui annuali presso il monastero di Camaldoli e alle iniziative del Segretariato attività ecumeniche (Sae).

Ripenso ad alcuni pomeriggi nella sua casa di via Uberti a Milano, in un soggiorno dalle pareti tappezzate di libri, a chiedergli della sua vicenda di «strano ebreo», della stagione con Olivetti, degli anni dedicati allo studio della Shoah, della deriva autoritaria in atto in Israele (che riteneva evidente dall’assassinio di Rabin in poi), del crescente scontro tra ebraismo religioso ed estremismo palestinese. A questo proposito, il 19 giugno 2021, mi aveva trasmesso un articolo (pubblicato qualche giorno dopo su IlMulino.it e in seguito su Qol. Rivista trimestrale di teologia e dialogo interreligioso, n. 202, aprile-maggio-giugno 2021) nel quale entrava – con estrema lucidità – nel merito del grande caos della Terra Santa d’oggi. «Mi pongo innanzitutto – scriveva – un paio di scomode domande. Dopo le gravissime violenze che nel maggio scorso hanno insanguinato e devastato i territori di Israele/Palestina, è ipotizzabile che la piccola regione compresa tra il Giordano e il Mediterraneo riesca a riemergere dal caos nel quale sembra ormai irrimediabilmente sprofondata? E ancora, più specificamente, è ipotizzabile che le popolazioni arabo-palestinesi che vivono da decenni in condizioni di umiliante sottomissione traggano, proprio dalle recenti vicende, le energie per puntare con successo all’emancipazione?».

Bruno Segre nella sua casa milanese. (foto gentilmente concessa da Rosita Poloni)

Con grande visione e senso della storia, Bruno Segre annotava: «Da poco meno di un secolo israeliani e palestinesi vivono all’ombra della grande storia, gli uni accanto-insieme-contro gli altri. In un recente articolo su France Inter Pierre Haski rileva con acutezza che la storia può esercitare un peso schiacciante soprattutto quando, veicolando insopportabili memorie traumatiche, si caratterizza come una storia non condivisa. E riflettendo su israeliani e palestinesi, l’opinionista francese si domanda se sia mai possibile che essi superino il conflitto in cui sono tragicamente coinvolti senza prima riconoscere gli uni i traumi e le cicatrici degli altri».

A me, però, è stata più cara, per quanto ho potuto conoscere, la dimensione intima di Bruno Segre, raccontata in maniera esemplare nel libro-intervista a cura di Alberto Saibene, Che razza di ebreo sono io (Casagrande, 2016) dove tratteggia le vicende che, in seguito alle leggi razziali, lo costrinsero a lasciare la scuola pubblica, la morte del padre (ufficiale dell’esercito, che non si rassegnava ad essere discriminato in quanto ebreo dopo aver servito la patria), le peregrinazioni con la madre per scampare alla deportazione… E poi da giovane intellettuale, gli anni straordinari con Adriano Olivetti, e l’insegnamento nel Canton Ticino, la collaborazione nell’editoria e la collaborazione a giornali e riviste.

Ricordo anche il racconto, a margine di una conferenza tenuta presso la Fondazione Terra Santa, della vicenda legata all’amata moglie Matilde, e al «funerale negato» (divenuto poi un pamphlet con lo stesso titolo uscito, per i tipi di Una città, nel 2020): cioè l’impossibilità di dare sepoltura alla moglie non ebrea nel cimitero ebraico di Monticelli d’Ongina (vedi a questo proposito: Noi, «marrani» di Monticelli d’Ongina. Una lettera di Bruno Segre apparsa su Joimag.it).

Il suo impegno per l’associazione italiana Amici di Neve Shalom Wahat al-Salam lo ha assorbito per molti anni in una testimonianza di pace e dialogo. Lo ricordo raccontare delle sue visite laggiù, in terra d’Israele, in quell’Oasi di pace e di speranza. E della sua disponibilità a intraprendere anche viaggi estenuanti (ormai vegliardo) per raggiungere località lontane dove poter ragionare e discutere, incantando con il suo eloquio elegante.

Ora che non c’è più, mancherà a molti. Mancherà la sua saggezza e la sua capacità di lettura della contemporaneità. Mancherà la sua ironia, quello sguardo lieve sulla vita che lo ha accompagnato, dopo un lungo viaggio, tra le braccia dell’unico Padre.


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