Il canale di Suez è il simbolo imponente dell’indipendenza dell'Egitto, e della sfida (vinta) contro i colonizzatori. Ma oggi Suez è anche l'evidente spia della crisi del Paese.
Suez è un oggetto da maneggiare con molta cura, in Egitto. Soprattutto perché contiene buona parte della sua storia dell’ultimo secolo e mezzo, nel bene e nel male. È il simbolo imponente dell’indipendenza del Paese, e della sfida (vinta) contro i colonizzatori: nessun egiziano dimentica – ancora oggi – l’epopea della nazionalizzazione del Canale nel 1956 e la successiva vittoria di Gamal Abdel Nasser contro l’occupazione da parte di Israele, Regno Unito e Francia.
Mito del riscatto, dell’indipendenza e della grandeur egiziana, Suez non si tocca. Per questo la sola ipotesi (poi smentita) di una privatizzazione dell’Autorità nazionale del Canale ha suscitato forti critiche, in un Paese in cui la repressione è capillare e il dissenso nei confronti del regime di Abdel Fattah al-Sisi è inconcepibile. La questione scoppia in parlamento a metà dello scorso dicembre, quando viene presentato un disegno di legge per la creazione di un nuovo fondo di investimento sul Canale, sul quale attrarre investitori anche stranieri. Le risorse, però, avrebbero compreso anche «una percentuale delle entrate dell’Autorità del Canale di Suez, o l’allocazione di parte del surplus dell’Autorità a beneficio del fondo, previo accordo con il ministro delle Finanze», secondo quanto affermano in un’inchiesta Anas Mohamed e Rana Mamdouh, reporter del giornale online di opposizione Mada Masr. I malumori si fanno subito sentire. Si teme la privatizzazione del Canale, con tutto ciò che significherebbe per l’economia egiziana. Suez rappresenta, infatti, uno degli introiti più importanti in moneta forte per le casse dell’Egitto, tra i Paesi più indebitati al mondo.
La crisi della logistica a livello globale, la pandemia, le ripercussioni dell’aggressione russa all’Ucraina hanno colpito duro anche il passaggio più importante per la rete di distribuzione mondiale. E Suez, per il presidente al-Sisi e il suo regime, è stato fin dall’inizio, dal golpe del 2013, il mito su cui ricostruire consenso e immaginario. Sul Canale è stato persino messo in piedi, nel 2014, una sorta di crowdfunding nazionale con l’emissione di certificati per il sostegno al raddoppio del canale, il dragaggio di un nuovo ramo per snellire il passaggio tra il mar Rosso e il Mediterraneo. Un’impresa da miliardi di dollari per la quale l’Egitto ha messo in campo anche una parte dei sostegni finanziari arrivati dagli organismi internazionali e dagli alleati del Golfo.
Suez è, ancora una volta, il simbolo di una pratica, e cioè il forte indebitamento come sostegno del potere autocratico attraverso i megaprogetti e tutto ciò che questi significano in termini di gestione del consenso. Il debito estero è triplicato – da 43 a 157 miliardi di dollari – in appena nove anni (dal 2013, anno della presa del potere di al-Sisi, a marzo 2022). Sono stati messi in cantiere progetti faraonici (è il caso di dirlo) che partono da Suez e arrivano alla nuova megacapitale amministrativa in cui dovrebbero finire, a seconda delle fonti, fra i 30 e i 60 miliardi di dollari. Il Canale sarà privatizzato? L’ammiraglio Osama Rabie, il presidente dell’Autorità, sostiene di no. Ma si può ricordare ciò che successe nel 1875, quando il premier britannico Benjamin Disraeli raggiunse un accordo con il khedive Ismail. Londra comprò per quattro milioni di sterline il 44 per cento delle azioni del Canale. L’imperialismo britannico conquistò il passaggio fondamentale per consolidarsi. La storia non si ripete mai, ma è anche vero che dalla storia, spesso, non si impara nulla.